Accedine

Creato il 15 novembre 2014 da Malvino
Può darsi ch’io m’inganni e stia per dirne una tanto bestiale da dovermene vergognare per mesi, perciò faccio affidamento, senza neanche contarci troppo, sull’indulgenza di chi non avrà alcuna difficoltà nel dimostrarmi che lo stato d’animo che qui mi appresto a descrivere – il mio, da qualche tempo a questa parte, quasi tutte le volte che decido che questa pagina vada aggiornata, sennò che sia meglio chiudere il blog – non sia affatto singolare, men che meno necessiti di un neologismo, perché è di questo che si tratta: non è certo singolare la sensazione che nulla valga la pena di un commento, questo lo so; né è singolare quella che induca a credere che un commento, ancorché sprezzantemente liquidatorio o meticolosamente decostruttivo, offenderebbe più chi lo fa, per il semplice fatto che così si abbasserebbe a farlo, che quanto ne sia l’oggetto, così elevato dalla bassezza della sua piatta insulsaggine o della sua brutale volgarità all’immeritata dignità di un qualche interesse, e so anche questo; come so bene che nemmeno è singolare che questa sensazione possa riguardare molto o tutto, per qualche tempo, a tratti, o per un lungo periodo, senza remissioni; però dico che senza dubbio abbia un connotato peculiare – un quid con tanto di sui generis – il sentire che tanta insulsaggine e tanta volgarità non possano scorrere senza apporvi sopra il marchio dell’infamia, e nel contempo il sentire che sia inutile, e soprattutto avvilente. Lo si sente necessario, quasi indispensabile, ma si avverte che sarebbe fatica enorme, e mortificante, e vana. Si aggiunga, inoltre, che non sarebbe fatica dovuta, se non a ciò che rende intollerabile la fatica di lasciar perdere, far finta di non aver visto e di non aver sentito: non è mestiere di scrivere, quello del commento, tutt’al più è abitudine affine alla mania. Un guazzabuglio di malesseri, insomma, in cui si possono trovare – variamente dosate e composte – una frenesia d’urgenza e una noia del ripetersi, un’indignazione che può degenerare nella maniera e una spossatezza da inconcludenza, una rabbia sorda da risentito e una resa che cerca nobiltà nella sconfitta, alle quali va ad aggiungersi quel tanto di ridicolo che sta nel poterne fare a meno, ma non volerlo, però costringersi a farlo, e poi non farlo: evitare di scriverne, però sentendone in colpa, ma traendo una sorta di sollievo da questa mancanza nel considerare quanto peserebbe l’accollarsene il dovere, che poi è tutto verso se stessi. La direi accedine, un misto di accidia e acredine, ma il termine non mi sembra del tutto adeguato, perché almeno nel caso di specie – il mio – è relativo a uno stato d’animo che mi assale solo quando scorro la cronaca: tutto mi sembra futile e mi irrita, a cominciare dal fatto che la futilità non meriterebbe tanta irritazione, e tutto mi spinge a sputar bile ma sei volte su sette me lo risparmio, e m’acconcio a una posa di disgustata alterigia, che io stesso sento falsa, che io stesso mi rinfaccio.

Prendete il caso della lettera che la Diocesi di Milano ha inviato a seimila insegnanti di religione, stipendiati dallo Stato, ma idonei all’insegnamento solo se graditi alla Chiesa, e inidonei quando le diventano sgraditi. Lettera che sollecita una schedatura di quanti siano impegnati a combattere nella scuola pregiudizi e discriminazioni relative alle libere e responsabili scelte di genere. Lettera che ha sollevato qualche protesta e di cui subito la Diocesi di Milano si è scusata. Ora c’è chi le manda lettere per farle presente che ha sbagliato a scusarsi. Quanto ci sarebbe da scrivere sulla faccenda. E quanto sarebbe inutile. E quanto sarebbe noioso ripetere quello che comunque sarebbe necessario ripetere, nel caso. E quanto mi irrita il non volerlo fare. Più mi irrita quanto accade, e più è irritante il fatto che finirò per ritenerlo degno di disinteressarmene, metà soddisfatto per aver lasciato perdere e metà pentito per non averne scritto. È accedine, direi.


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