In una terra contrassegnata dalla frammentazione etnica, il tema della condivisione dei punti di vista finora discordanti esercita sempre una forte attrazione. Si tratta però di un’attrazione e di un’aspettativa viziate da una forte ipoteca se gli eventi trascorsi si dispongono all’interno di un flusso temporale orientato in modo univoco. Anche se la strategia che si vorrebbe perseguire punta alla finalità seducente della conciliazione, infatti, il rischio è che venga messa a tacere la memoria di contrasti non compresi nelle loro perduranti conseguenze.
A questo tipo di atteggiamento si oppone la consapevolezza – certamente più disincantata, ma forse più opportuna – di chi invece accetta e persino favorisce la pluralità dei punti di vista, proponendosi di farli dialogare tra loro senza voler eliminare a tutti i costi le differenze residue o quelle colature affettive che appartengono al sentire degli esseri umani. A tal proposito, lo strumento migliore, perché strutturalmente polifonico e aperto, non è il trattato scientifico ma la letteratura, in particolare la sua declinazione più ampia, cioè il romanzo. La letteratura – ha scritto Alain Finkielkraut – è infatti una “forma di mediazione che non offre garanzie, ma senza la quale ci sarebbe per sempre preclusa la grazia di un cuore intelligente”.
Il battito di un cuore intelligente nelle vene di una storia non condivisa: ecco la formula per riassumere le pagine molto belle di un romanzo di grande successo, uscito da qualche mese in lingua tedesca (Sabine Gruber, Stillbach oder die Sehnsucht, Monaco 2011) e purtroppo ancora in attesa di venire tradotto. Si tratta di una storia che ci riguarda da vicino, tutta intessuta di vicende e riflessioni che costituiscono lo sfondo del nostro lacerato passato, e per questo essenziali anche per capire non poche contraddizioni del presente. Il fatto che un libro così importante non sia già nelle mani di una casa editrice italiana costituisce un deplorevole ritardo della nostra industria culturale e dovremmo cercare di porvi al più presto rimedio.
In Sudtirolo c’è ancora bisogno di restringere il campo tensivo generato da un atteggiamento troppo ansioso nei confronti della nostra complessa identità e dei problemi legati al plurilinguismo (già, malauguratamente tendiamo sempre a dire “problemi”, non “opportunità”). Un maggior numero di traduzioni letterarie, magari redatte da una concreta comunità di artigiani formatisi proprio in questa terra, contribuirebbe senza dubbio a suscitare prospettive migliori di quelle promesse da vaghi sogni di utopistica condivisione.
Corriere dell’Alto Adige, 14 dicembre 2011