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Anteprima sabato sera al Teatro Franco Parenti con un titolo che è già tutto un programma: "Lo Shabbat non è una domenica che capita di sabato" per sottolineare da subito quanto sarebbe riduttivo identificare il sabato, momento pregnante della vita spirituale ebraica, come semplice giorno di riposo. Sulla scena, e così tutte le altre serate, intorno a un tavolo addobbato a festa con tovaglia bianca, frutta fresca e secca, si canta, si mangia e si discute. Viene così liberamente ripresa la vecchia tradizione del Tisch (tavolo in tedesco e in yiddish) quando il Rebbe, il Maestro, e tutta la comunità stanno insieme in gioia e allegria. Andrée Ruth Schammah, instancabile anima del teatro, fa gli onori di casa agli invitati, Haim Baharier psicanalista e grande studioso di ermeneutica biblica e pensiero ebraico e Vittorino Andreoli, psichiatra e criminologo. Andreoli snocciola i ricordi delle sue "domeniche" da bambino nelle campagne venete, erano i difficili anni della guerra. Lui faceva il bagno, si metteva il vestito più bello, mangiava il bollito, l'unico pasto di carne della settimana, sentiva le campane che gli dicevano essere la voce del Signore, partecipava alla messa nel vicino monastero camaldolese, occasione straordinaria una volta alla settimana per essere abbracciato da un monaco che non era un monaco ma suo padre, resistente antifascista che lì si era rifugiato. Dal bollito di Andreoli si passa ai ricordi delle aringhe polacche degli Shabbat di Baharier. Il Maestro si interroga sul significato oggi per un laico di questo giorno particolare così carico di specificità storiche e rituali, sul senso di astensioni vissute forse come obsolete dalla sensibilità moderna. Cita anche Wittgenstein che considera quello stacco assoluto del sabato come un'occasione per vedere l'esistenza dall'esterno e non dall'interno dell'affannarsi quotidiano, il poeta Rilke che definisce il sabato come "uno spazio interiore del mondo", un momento privilegiato per l'ascolto profondo.
Domenica mattina inaugurazione ufficiale del festival alla Sinagoga centrale di via Guastalla, c'erano le autorità, il Sindaco Pisapia, il Presidente della Provincia Podestà, molti altri. Mi ha fatto piacere constatare che dopo i discorsi ufficiali non se ne sono andati come spesso avviene, ma sono rimasti ad ascoltare tutti gli incontri della mattina. Nel suo intervento Rav Alfonso Arbib ha spiegato il senso delle "melachot" , le 39 azioni da cui bisogna astenersi durante il sabato. Melachot contiene la parola "melech", re. Durante tutta la settimana l'uomo si sente re, esprime il suo dominio sulla natura, crede di poter controllare il mondo che gli sta intorno, l'astenersi il sabato da tutta una serie di azioni gli ricorda che non è così, su questa terra siamo solo degli ospiti di passaggio e non padroni. Ricco di poesia e accompagnato da sue performances alla fisarmonica l'intervento di Omer Meir Wellber, giovanissimo direttore d'orchestra, musicista e scrittore. Lui non ama la parola "religione", fonte solo di problemi, preferisce cogliere la sacralità offerta da musica e Torah che invitano entrambe alla responsabilità sempre viva di colui che ne fruisce. Secondo Welleber da un ascolto e da una lettura attivi emergono le analogie fra musica e Torah: sospeso,in fondo irraggiungibile il significato intrinseco della musica che differentemente entra in ognuno di noi e parimenti a ogni rilettura si rinnova il significato della parola biblica. Parla la musica aperta a più interpretazioni e parla la parola del testo che letto e riletto nei millenni si apre ogni volta a nuove possibili valenze.
Lo scrittore Marek Halter, fondatore di SOS Racisme e lieder dell'antirazzismo mondiale, ha ripercorso con chiarezza e semplicità alcune tappe e i valori più innovativi della formazione della storia e dell'identità di Israel a partire dalle origini comuni, quella lontana civiltà sumerica che 5000 anni fa aveva già tutto inventato, l'agricoltura, i sistemi di irrigazione, le città, l'esercito professionale, il commercio e soprattutto il primo alfabeto astratto.
All'ora di pranzo una meritata sosta ristoratrice alla Rotonda della Besana. Una lunga tavolata sotto i portici dove assaggiare i piatti tipici dello Shabbat suggerite dalle ricette delle famiglie ebree milanesi. Mi sarebbe piaciuto, ma per la verità me ne sono andata con le amiche a mangiare una pizza tutta italiana e niente ebraica nei dintorni, c'era una coda che non finiva più.
Interessante il dibattito all'Umanitaria fra la grecista Eva Cantarella, la scrittrice e giornalista Elena Loewenthal e il professore di antropologia culturale Marco Aime. Il tema è lo "stare insieme" in famiglia e in comunità, le dinamiche dello Shabbat in parallelo con il simposio greco e il convivio romano e i costumi e riti della tradizione africana, quella sub-sahariana, in particolare, oggetto degli studi di Aime. A parte il convivio romano che non aveva nessuna connotazione religiosa o sacra, rappresentava solo un momento di divertimento, scambio sociale, occasione di conoscenza e perché no, anche di nuovi incontri amorosi, per ebrei, antichi greci e popolazioni africane, naturalmente con modalità e tradizioni totalmente diverse, lo stare insieme in determinate circostanze ha funzione di rito sociale e sacrale. Offrono particolare materia di riflessione due concetti espressi da Aime. A Timbuctù hanno trovato un'interessante motivazione alle lungaggini della giustizia: i tempi lunghi servono a tranquillizzare gli animi, i contendenti nel tempo si affronteranno meno animosamente e nei villaggi non si vota a maggioranza, ma si discute fino a quando non si trova una soluzione condivisa.
Profondo e diverte al teatro Franco Parenti il monologo rigorosamente ironico e auto ironico di Gioele Dix seguito dal dibattito su Etica e Norma con Gherardo Colombo, Stefano Levi della Torre e Marco Ottolenghi. Diverse le specifiche competenze dei partecipanti e di conseguenza le loro argomentazioni, ma comune il definire l'etica come interiorizzazione di norme condivise, come coscienza individuale e collettiva. Quel "ricordati che sei stato straniero" del Pentateuco risulta un chiaro invito a una consapevolezza etica condivisibile per tutti.
Sul tema "La parola del silenzio" Enzo Bianchi, ecumenico priore del Monastero di Bose ricordando il profeta Elia che alla fine comprende che la voce divina non è nel fragore di tuoni e fulmini, non è nel vento, non nel terremoto ma in un silenzio "trattenuto", invita a mettersi in ascolto del silenzio e del suo messaggio, altrettanto ricco di significati che quello delle parole. Non a caso i monaci nel monastero lo coltivano ogni giorno per dodici ore, dalle 8 di sera alle 8 del mattino, non a caso in ebraico ci sono cinque diverse parole che traducono il silenzio, come spiegherà in seguito Ouaknin. E per me magico è stato ascoltare gli interventi di Daniel Sibony, Erri de Luca e Marc-Alain Ouaknin. Questi tre studiosi hanno il dono prezioso che non è dato a tutti di dire cose profondissime, frutto di anni e anni di lavoro e riflessione con leggerezza e semplicità, e tu, ascoltatore che ignora non ti senti cretino, ti sembra di capire e le loro parole incantano. Erri de Luca ci aggiunge anche l'accento della sua terra e sentirgli dire che "la parola è creatrice, crea dicendo", che "l'amore è come la manna, se lo si conserva, se non lo si condivide, si esaurisce, va a male, va sprecato" con cadenza napoletana, è stata proprio un'esperienza particolare.
Corteo in musica tutti insieme dalla sinagoga alla Rotonda della Besana, sembrava che ci fosse mezza Milano e concerto finale di musica kletzmer con il bravissimo NefEsh Trio.
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