Un vecchio adagio diplomatico funge da monito: "Quando la tensione cresce, il politico batte i pugni, lo statista aguzza l'ingegno". Forza o ragione, potenza o intelletto: è l'antico dilemma che concerne Achille e Ulisse, uomini dotati in battaglia di caratteristiche diverse e differenti sensibilità, figure eroiche antitetiche, vieppiù distanti quando incombono i venti di guerra.
Basterebbe ripartire da qui per analizzare criticamente la posizione maturata dall'Unione europea e dal blocco occidentale nei confronti della crisi ucraina. La decisione di convocare all'Aja il G7 rappresenta materialmente il fallimento diplomatico delle cancellerie: anziché lenire le conseguenze del conflitto aprendo una tavola rotonda con Putin, si è preferita praticare nei confronti dello Zar russo una politica di ostracismo, inutile ove non apertamente nociva. E poco ha a che vedere tutto ciò con la natura cesarista dell'ex Kgb. La pretesa, in realtà, è di pacificare unilateralmente regioni ricche di criticità, storicamente attraversate da conflitti etnici e religiosi, sulla falsariga del modello afghano: quasi che fra Washington, Parigi e Londra vigesse un patto ispirato da Dio, una suprema verità rivelata. Inaccettabile.
Molto si è detto sulla figura di Yanukovich, leader detestabile ma benedetto dalle urne, e altrettante pagine sono state scritte sul senso opportunistico delle nazioni del Patto Atlantico, il cui amore per la democrazia coincide non di rado con valutazioni di realpolitik. Se traiamo il dado, però, siamo obbligati a constatare alcuni elementi oggettivi. 1) Come spesso accade nell'Europa dell'Est, ai vertici dello Stato siedono persone dotate di uno spasmodico culto dell'io, incapaci di distinguere la propria legittimità operativa dalla sovranità assoluta, dal diritto di fare del paese ciò che si vuole, quando si vuole. E questo genera il caos. 2) La coscienza europeista di una parte della società civile ucraina si è scontrata coi retaggi di una repressa identità sovietica. E' in questo clima che Yanukovich è stato indebitamente rovesciato da una piazza a forma di universo: una piazza, cioè, in grado di ospitare al suo interno anime genuinamente occidentali e forze ultra-nazionaliste, esasperate entrambe dai capziosi moniti di falsi profeti come Bernard-Henri Lévy. 3) La russofona Crimea ha detto no. E giù a valutare, in maniera liberale, gli effetti e gli esiti del referendum, senza affrontare il punto nevralgico della questione: si può organizzare una consultazione siffatta in pochi giorni? Si può ricamare un'operazione simile autonomamente, col supporto del Cremlino, senza la supervisione di organizzazioni internazionali e con la minaccia di ritorsioni economiche o militari?
In ossequio alla teoria dei ricorsi storici di vichiana memoria, bene ha fatto Christian Rocca ad evidenziare come questo scenario non sia affatto inedito.
"Nel 2008, pochi mesi prima delle elezioni americane, successe la stessa cosa, e sempre a cavallo delle Olimpiadi (a Pechino, in quel caso): Putin invase la Georgia che si voleva occidentalizzare [...] Vinse Obama, la Georgia perse l'Ossetia e Putin capì che avrebbe potuto fare quello che voleva. Obama e Hillary Clinton, una volta in carica, provarono subito a ricostruire i rapporti con Putin, sostanzialmente in due modi: ritirarono il sistema missilistico di difesa Interceptor che l'America avrebbe dovuto installare in Polonia e Repubblica Ceca e rinunciarono a fare la voce grossa sull'Ossetia scippata alla Georgia".
All'epoca non si fece niente, oggi si pretende qualcosa di diverso, sebbene non siano cambiati né i termini della posta in gioco né i protagonisti. La situazione in Crimea è paradossale perché assistiamo ad un'annessione - brutto termine di natura novecentesca - senza che vi sia stata una formale occupazione. Scrive Walzer in un bel saggio del 2009: " L'effettivo o imminente attraversamento dei confini" sancisce " l'invasione e l'aggressione fisica. In caso contrario, com'è del resto prevedibile, la nozione di resistenza all'aggressione non avrebbe alcun preciso significato" (M. Walzer, Guerre giuste e ingiuste. Un discorso morale con esemplificazioni storiche, Laterza Editori, p. 79). Ora, se volessimo restare vincolati a questa definizione, probabilmente non potremmo neppure parlare di una vera e propria offensiva in atto, poiché le truppe dislocate in Crimea erano già presenti sul territorio in conformità ad un accordo internazionale.
Allora, che fare? Si può ignorare il problema? Assolutamente no. Occorre ragionare in piccolo, guardando alla querelle con spirito propositivo. Intanto l'Italia non può abiurare la sua funzione di paese cerniera fra Nord e Sud del mondo, come fra Est ed Ovest. Occorre sfruttare ogni occasione internazionale per chiedere a gran voce una road map: se l'Europa tiene tanto all'Ucraina, non può lasciarla sull'uscio della Comunità, in ostaggio della Gazprom. Bisogna poi premere nei confronti delle istituzioni internazionali per concordare aiuti non retorici ma di natura finanziaria, ragionando in termini di investimenti con il Fondo Monetario Internazionale. Infine, occorre premere sulla Casa Bianca, affinché capisca che la sciagurata scelta del muro contro muro potrebbe portare ad una rinnovata cooperazione orientale fra Cina e Russia, volta ad aggirare l'ostacolo delle possibili sanzioni. Se la Crimea scricchiola, l'ordine internazionale rischia di periclitare.