Articolo di Maurizio Ferrera pubblicato sul Corriere della Sera il 26 luglio 2013
La proposta è quella di chiamarlo “Reis”: Reddito di Inclusione Sociale. Le ACLI hanno elaborato un interessante progetto per introdurre nel nostro welfare un
tassello mancante, volto ad aiutare i più poveri. Si tratta di una prestazione
monetaria accompagnata da un programma mirato di inserimento lavorativo o
formativo.
C’è bisogno di un simile schema? Si, per due motivi. I nostri livelli di povertà
sono fra i più alti d’Europa, soprattutto sulla scia della crisi. E il sistema
di protezione sociale è privo di una “rete di sicurezza”. Eccettuata la
pensione sociale per chi ha più di 65 anni, tutti gli altri tipi di sussidio
pubblico sono di natura “categoriale” (invalidità, non autosufficienza) oppure
dipendono dalla buona grazia e dalle disponibilità finanziarie dei comuni, che
hanno ormai le casse vuote.
Come si fa a stabilire chi è veramente povero? Il metro è la soglia di povertà
“assoluta” calcolata dall’Istat. Per due genitori e due figli piccoli, la cifra
varia tra 980 e 1415 euro al mese, a seconda del comune di residenza. Sono i
soldi necessari per l’alimentazione, l’abitazione e il vestiario, calcolati
secondo standard minimi di sussistenza e di decoro. Chi richiede il sussidio,
di importo pari a quanto serve per raggiungere la soglia, deve rispettare il
nuovo ISEE: uno strumento disegnato per misurare in modo accurato la situazione
economica delle famiglie, evitando imbrogli o favoritismi. L’Istat calcola che
le famiglie assolutamente povere siano circa il 6,8% del totale (la quota sale
al 9.8% al Sud, scende al 5,5% al Nord).
Il rischio dei sussidi di povertà è che creino “assistenzialismo”, premiando
quelli che non si rimboccano le mani onestamente. In linea con le migliori
esperienze europee, la
proposta ACLI prevede però condizioni molto precise per
accedere e mantenere la prestazione, soprattutto per quanto riguarda la
disponibilità al lavoro e alla formazione professionale. Nessun “pasto gratis”
insomma, ma un piuttosto un “trampolino” per tornare a camminare con le proprie
gambe, anche con l’aiuto del terzo settore e dei privati.
Per far sì che tutti i poveri raggiungano la soglia di consumo “decente”
bisognerebbe investire circa 6 miliardi l’anno: le ACLI propongono di arrivarci
per gradi entro in quattro anni. E’ vero, ci sono i vincoli di bilancio. Ma
manteniamo il senso delle proporzioni. Solo per le pensioni di invalidità
civile spendiamo circa 12 miliardi. E per le deduzioni e detrazioni fiscali più
di 100 miliardi l’anno. Fra gli “assolutamente poveri” c’è almeno mezzo milione
di bambini. Che sensibilità (e che futuro) ha un paese che non investe sui
propri figli?
I veri ostacoli al progetto sono due. Il primo è culturale: l’idea che ogni euro
disponibile vada oggi speso per la crescita e il lavoro. E’ una posizione
corretta. Ma anche nei paesi più dinamici ci sono sempre state e sempre ci
saranno, purtroppo, sacche di indigenza che non scompaiono spontaneamente e
richiedono misure specifiche. Sempre sul fronte culturale, bisogna poi spazzar
via l’enorme confusione concettuale che circonda il dibattito italiano su
questi temi. Il Reddito di Inclusione Sociale è cosa molto diversa dal reddito
di cittadinanza, dal salario minimo, dal sussidio di disoccupazione universale
e così via. Le ACLI hanno creato un sito internet (www.redditoinclusione.it),
utilissimo a chiarire le idee.
Il secondo ostacolo è organizzativo. Se introdotto, il Reis non sarebbe un
regolamento da applicare con mentalità burocratica, ma un programma da gestire
con pragmatismo ed efficienza, avendo in mente i risultati. Qui casca l’asino,
si dirà. Ma se questo paese non si dà una mossa per riformare la burocrazia, a
cadere saremo tutti e soprattutto i nostri figli. Ormai anche molti paesi in
via di sviluppo dispongono di schemi tipo il Reis. Se non riusciamo o non
vogliamo allinearci all’Europa, cerchiamo almeno di non farci doppiare dal
Brasile o dall’Uruguay.