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Acqua storta di Luigi Romolo Carrino

Creato il 27 aprile 2015 da Diletti Riletti @DilettieRiletti

Vorrei averlo scritto io. Questo ho pensato, con un’invidia feroce, quando ho letto Acqua storta di Luigi Romolo Carrino. Ci sono libri che leggi e basta, li ami persino o li detesti, altri invece si fanno reali, vivi. Ti lordano, ti sporcano, ti attraversano e non ti lasciano salvezza. Acqua storta mi ha fatto questo. Pagine feroci. E sì, io e Carrino teniamo la stessa lingua, e la teniamo invece di averla perché in napoletano non ci si limita ad avere, si possiede; lui quel dialetto prepotente, quella storia di prevaricazioni che è la storia della camorra, e l’amore che è un concetto universale li ha usati in un modo talmente incredibile che mi ha fatta arrabbiare, perché con gli stessi suoi strumenti io non avrei mai potuto avere lo stesso suo risultato.

Giovanni è il figlio di Don Antonio, detto Acqua storta, un boss importante, e segue le orme del padre, le sozze impronte della camorra. Non è però marchio d’infamia taglieggiare, uccidere, vessare. Lo è amare Salvatore. Non è concesso in un ambiente maschilista essere omosessuale, scavare la carne di un altro uomo, perdersi dentro di lui. Tenere un uomo.

La storia viaggia al contrario, racconto di un finale inevitabile, ineluttabile, ne ripercorre le ragioni a rovescio, questo sì contro natura. Qualcuno forse si è accorto delle corse sudate di Salvatore sulle scale della casa di Giovanni, delle sue sortite nel parcheggio di Agnano, del suo eccitarsi alla vista di ragazzini che sodomizzano un altro ragazzino al suo comando. Perché Giovanni, marito di Mariasole, non è una persona perbene, pulita, è un uomo spietato che ama in un modo incomprensibile. E Salvatore crede che voglia solo fotterselo, e lo sa bene di cosa sia capace. Eppure in mezzo alla merda, che solo merda è termine adeguato, che loro stessi seminano o aiutano a seminare, le labbra si uniscono, le lingue scavano, i corpi si fondono senza alcuna velleità di procreare. Senza passare per il sangue, citando Savarese. Ed è proprio il sangue che si fa traditore, anteponendo l’onore alla parentela. Armando la mano di una figlia acquisita.

Breve. Violento. Dialoghi talmente ben riusciti che interrompere la lettura pare impossibile, perché tu sei là, con loro, li spii, li accompagni, viaggi a ritroso non sapendo che stai dalla parte sbagliata, che nessuno è innocente. E questa lingua di cui si fa così fatica talvolta a privarsi trova la sua celebrazione, nelle pagine del sesso, in quelle della famiglia, nei pensieri, negli scambi tra gli amanti. Senza esagerazioni, senza toni da melodramma, scarna ed essenziale tanto quanto potente. Non risparmia niente Carrino, delinea con pennellate rapidissime dei personaggi che risultano poi, miracolosamente, completi, comprensibili. A tratti sembra avere pensato in napoletano e tradotto in italiano, con un risultato stupefacente, scrittore e traduttore di se stesso riuscendo a lasciare che la verità di una storia fosse espressa nella sua unica lingua possibile: il dialetto. Ma non poteva certo un libro arrestarsi nei confini di una regione, da lì la necessità d’una traduzione perfetta, che taglia, scava, aggiusta, indietreggia solo quando necessario.

Tutto trasporta, tutto ti prende, come qualcuno che abbia da urlarti qualcosa e per non farti allontanare ti afferri per una manica e ti trattenga. Nulla è superfluo, tutto quello che c’è doveva esserci per essere comprensibile a chi non c’era, a chi non poteva esserci, a chi assiste al dipanarsi di una storia pur vivendola dal momento in cui è già tutto accaduto.

Possono parole altrui, vite altrui, storie altrui lacerare? Come faccio a far comprendere a chi questo testo non lo ha letto quale urgenza ho sentito io, quale rabbia e forza ho avvertito in queste poche pagine. Un uomo che urla fra i denti, ecco come mi è sembrato. Un dolore raccontato senza lacrime, non è concesso a un uomo piangere. Può una macchina senza vergogna, come quella della camorra, dettare regole morali? E quali? Nessuna, sarebbe la risposta più sensata. Eppure lo stesso Giovanni sputa su ciò che è arrivando a sacrificare il suo amato. Lo stesso fanno Don Antonio e Mariasole. Rinnegano tutti l’amore credendo di agire nel nome dello stesso, della salvezza, dell’onore. E quale onore può esserci nella morte e nella negazione di ciò che siamo? Dove stanno le lacrime quando per cercarle devi scavare sotto il lordume più schifoso? L’acqua storta, che prima era sporca, una bonifica. Bonificare il buon nome della famiglia, bonificare dei terreni nascondendoci sotto la munnezza.

Vorrei averlo scritto io, vorrei possedere questa penna così cattiva e cruda, vorrei raccontare del sesso, dell’amore, della vita come ha fatto Luigi Romolo Carrino. Vorrei saper costruire i suoi dialoghi, vorrei incatenare un lettore in meno di cinquanta pagine. Vorrei raccontare la cattiveria dell’amore senza mai doverlo nominare, la merda della camorra senza dover nemmeno accennare ad essa. Vorrei avere il talento di questo scrittore. No, anzi, lo vorrei tenere.

 


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