A Stefano Domenichini, bisogna ammettere, non mancano certo le idee: Cristo che si rifiuta di risorgere; un gruppo decisamente eterogeneo di hippy che parte alla volta di Washington per drogare il Presidente e porre fine a tutte le guerre; un moderno Orlando, vittima delle nevrosi dell’uomo contemporaneo e incapace di rinunciare ad Angelica; una riflessione metaletteraria sul perché le donne sposino spesso dei cretini e sulla maniera più giusta di raccontare questa verità senza tempo. Ma c’è da dire, anche, che un insieme di situazioni assurde non bastano a creare un racconto surreale; che non è la battuta di spirito che rende la scrittura leggera e lo scrittore abile nello stile umoristico; che l’ironia e il gusto per l’assurdo e il grottesco hanno bisogno, per esprimersi compiutamente in un’opera letteraria, di un unico, irrinunciabile elemento: il contenuto. Il surrealismo comunicava in forma complessa, non diretta, estremamente raffinata: ma si trattava sempre, appunto, di comunicazione. L’atto comunicativo di questi racconti non si compie, perché manca una qualsiasi forma di messaggio. Sembra che nella foga di dare forma al significante, l’autore abbia dimenticato del tutto di occuparsi del significato.
E allora i racconti scorrono come acqua, e il lettore va di pagina in pagina speranzoso di trovare, prima o poi, un personaggio memorabile, una metafora non banale, un passaggio in cui l’ironia e il grottesco nascondano un pensiero in un certo qual modo strutturato: ma ciò non accade, e allora subentra il veleno della letteratura, e cioè la noia.
Marina Lomunno
Stefano Domenichini, Acquaragia, Perdisa Pop, 200 pp., € 14,00.