Magazine Poesie

Adam Vaccaro: Quale bellezza?

Da Narcyso

Adam Vaccaro, SEEDS, Chelsea Editions 2014

vaccaro 2
Si può ben dire, leggendo questa antologia dell’opera poetica di Adam Vaccaro, che l’immagine centrale sia quella di un Ulisse le cui vicende non si dispongono in un tempo e in uno spazio ordinatamente collocabili – nel senso di un inizio e una fine – né del resto è possibile immaginare ogni avventura come un evento che, nel suo concludersi, giunga a una terra definitiva, a una Tulle in grado di sedare le forze originarie che l’hanno provocata.
Piuttosto, nella scelta di ubicazione di questi testi in una inedita strategia narrativa, Adam Vaccaro decide, significativamente, di attuare una cesura tra il prima e il dopo, uno spartiacque che separa l’Itaca delle origini – qui, poi, significativamente coincidente con un Sud carico di dolcezze e terrori – con un’ altra terra, la città, paragonabile, senza esagerazioni, alla dimensione dell’oceano periglioso, irto di marosi e procelle.
Si tratta, evidentemente, di un viaggio che ne include anche le premesse, e cioè la consapevolezza intellettiva (fatti non foste a viver come bruti…); quindi la conoscenza di sé, oltre che del mondo – ma sempre attraverso il mondo – liberata dalle ristrettezze del paesaggio famigliare, dalle ricorrenze di un tempo contadino e rituale: “Dunque tu mi dici che il mondo non finisce qui / che questo è solo un confine / e non una fine”, p. 40.
Ma, detto senza mezzi termini, il viaggio di Ulisse è comprensibile solo se lo si affronti personalmente, non attraverso un racconto postumo. E tale è il viaggio di ogni persona che decida di lasciare la casa per desiderio – si tratta di un desiderio che può coincidere per tutta la vita con una condizione di erranza, di viandanza imperitura nell’animo -: “mille andate e pochi ritorni / da una stazione che gelava / la fronte il ventre e il cuore e / sulla bocca sorrisi schivi di chissà // mille ulisse peppino e nicola / come gocce e rivoli portati via / da quel punto diventato nulla su / un treno che spalancava il mondo”, p.24.
Così, malgrado questa cesura, a dire il vero necessaria, anche per conseguenze di tipo espressivo, sentiamo, fin nei testi sistemati a conclusione del percorso, il tentativo di ricollocare il senso dell’erranza entro l’andamento di un polemos lirico in cui emerge l’oggetto di conoscenza di una ricerca inconclusa, il Quid, “Quel Quid immerso nel caos-cosa dell’universo / non è nascosto tra le mani del mondo (…) Quel Quid che non torna rimarrà un esule introvabile / a consolazione dell’infimo e dell’immenso”, p. 160.
La citazione testé riportata fa parte di un testo in cui si fa riferimento a Venere, ad Afrodite, quindi a una sensualità della conoscenza interpretabile come movimento, ed è innegabile che questa poesia si innesti sulle pulsioni “erotiche” di una mente/corpo che tutta è scossa e sconvolta e che conoscenza voglia dire immergersi nel flusso dei continui ribaltamenti, tra amore e morte, ritualità funebri – il volto distruttivo di eros – e feste – eros che si cela dietro il viso di Bacco, per celebrare lo splendore della vita: “come preme e morde in fondo al ventre / il bisogno e la febbre / del mare irrisolto della vita // e lacrimo infine anch’io / davanti a questo tuo corpo caos / di eros e di tormento -
dentro te dolce Sorrento / così immersa nel blu / di ogni cosa”, p. 158.
E’ il ripetersi di una stessa situazione di partenza, incipitaria, di “feroci innocenze e oltre”, nel momento in cui l’adolescenza prepara lo schiudersi dei semi, “eppure gia (di)versi cantando // m’illumino d’immenso // e nessuno può dire se fu quel piede fondato nella terra e / nel letame che diede una spinta a sogni d’assalto al cielo / o s’aprì in quei primilampi di parole un oltre / possibile / nel vortice sempre nuovo / sempre vecchio di questi decenni / pur avendo già un grido nel cuore / che poi la curva ridiscende / ed è subito sera”, p.68.
I sentori di conoscenza, dunque, sono causati da improvvise e lancinanti esperienze che subito riesumano violentemente altre immagini più sotterrate, e così percorrono un circolo vizioso, un refrein, o live motiv in funzione di tema, di “memoria emotiva” rivangata: “tra le americhe e il mondo / tra clamori e follie / ci affiora ogni tanto / un chiodo un fiore / bruciante sulla fronte”, p. 64.
vaccaro
Questa prima consapevolezza improvvisamente fa apparire il male, e mentre prima i bambini guardavano “scannare i maiali / con allegra tranquilla innocenza”, p. 68, ora questo Ulisse, “immerso nel caos dell’universo (…) / invoca nessuno e sogna una via di rinascita”, p. 80.
Il problema, dunque, è diventato filosofico e politico, perfino estetico. Il male si presenta in forma di ingiustizia sociale, di scarsa corrispondenza tra i proclami e le parole degli uomini. E come può, dunque, la poesia, fronteggiare i torti, le aberrazioni delle guerre, delle violenze? Certo, il male non è, e non può essere una ferita aperta solo dalla poesia. A suo modo Adam Vaccaro individua una risposta istintiva nella necessità dell’indignazione, nella proclamazione dell’invettiva: “esplodi seme esplodi e fammi sentire / fammi sentire il suono della vita che / rinasce e rinasce nel micro e nel macro / non voglio più sentire urla di ignoranti / morsi sibili e sterco onnipotente / in groppa a salmi cornacchie e bla bla / di delinquenti seduti in parlamento / leniti solo da versi di comici e cantanti”, p. 84: sequenza che, come si vede, contiene l’immagine centrale del seme, assimilabile, anche in un altro passaggio, al significato di forza positiva, ma anche, ancora una volta, in funzione di refrain del testo successivo in cui si fa riferimento “alla prima / fonte mai perduta di vita // campi di neve al sole che / una coperta ponevano tra / fame del presente e futuro / promessa sotto la neve pane”, p. 86.
È dunque un’altra possibile risposta alla corruzione delle cose nella parola, l’indicazione di un ritorno a un paesaggio di terra in cui l’uccisione dei maiali era solo per necessità, in contrapposizione agli assassini delle guerre, “nell’aperto aperto inferno”, in cui “i nomi (sono) ridotti a nere scorie / di memorie cancellate e dimenticate”, p. 112.
Dalla bellezza, ci dice Adam Vaccaro, si può rimanere abbagliati e trafitti, finché non s’impara dai più grandi che “ogni scuro squallore e viso sfigurato da / dolori e orrori più atroci ti sfidano”, p. 122.

Sebastiano Aglieco

***

Poesie scelte da Seeds

***

(da SEMI PARTE I)
Nei biancoscuri antefatti

bianche lenzuola stese al sole
così tanto accecanti da farsi
ali di un’anima che cerca
se stessa e nuova linfa di vita

ali lievi su cardi e rovi secchi
che resteranno quadri bianchi
pagine da riempire tra suoni
di voci perse ruscelli e uccelli

un candore che si farà misura
di ogni nero che accerchierà
il cuore – irto custode di equi
libri sempre persi e ritrovati

lenzuola bianche avvolgenti
il (bi)sogno di donare al presente
il passato – per farne latte e
alimento d’ignoto futuro

poi quelle estati abbagliate
vennero assalite e sorprese da
un altro sole – un sole spietato che
incalzava e faceva andare oltre

mille andate e pochi ritorni
da una stazione che gelava
la fronte il ventre e il cuore e
sulla bocca sorrisi schivi di chissà

mille ulisse peppino e nicola
come gocce e rivoli portati via
da quel punto diventato nulla su
un treno che spalancava il mondo

e che scorrendo tumtava nel petto
di ulisse tonfi tranquilli – ali
alzava dondolante e fumi
su rami di memorie e canzoni

(Il confine)

Dunque tu mi dici che il mondo non finisce qui
che questo è solo un confine
e non una fine
Dammi allora una mano a seguire questo filo
che mi si perde tra le mani
dammi ancora una mano che non mi
faccia perdere tra le tue mani

(il maglio)

maestro di magia nasceva ogni momento
un chiodo in fisso sulla fronte
un fiore diventava tra fremori e allegria
ogni istante un trapianto sulla fronte di ognuno
di noi cosìpieni di vuoti affamati
di sogni di carne e maccheroni in attesa
di chiodi e di fiori piantati ogni momento
su ognuna delle nostre fronti gli occhi a fulminar
ci/filmarci le grida tra i fiocchi azzurri e
rossi dei grembiuli neri che facevano uguali
le pezze al culo e i vestitini belli
e giovanni e luigi e gennaro che ora
tra le americhe e il mondo che fiamme
iduccia e le altre ci soffiavano già
il rosso più rosso sulle guance e il cuore
già scoppiava qualcosa già scoppiava in mezzo
ai calzoni al bianco improvviso che bianco
di brachessine e coscine sotto i banchi e nel vento
di marzo
Ed è quasi uno sfarzo
ora
tra le americhe e il mondo
tra clamori e follie
ci affiora ogni tanto
un chiodo un fiore
bruciante sulla fronte
la memoria ci viene
di un maglio che maestro
di magia
la bacchetta e le manone come
chiodi come fiori
piantati marinai
su ognuno di noi

(feroci innocenze e oltre

guardavamo scannare i maiali
con allegra tranquilla innocenza
lanciavamo stecche appuntite di ombrelli
contro civette crocifisse alle porte
e arrostivamo feroci zoccole finite
disperate in gabbie fischiando
un’uscita cercando da fiamme d’inferno
eppure già (di)versi cantando
m’illumino d’immenso

e nessuno può dire se fu quel piede fondato nella terra e
nel letame che diede una spinta a sogni d’assalto al cielo
o s’aprì in quei primilampi di parole un oltre
possibile
nel vortice sempre nuovo
sempre vecchio di questi decenni
pur avendo già un grido nel cuore
che poi la curva ridiscende
ed è subito sera

(nel paese dei bonzigonzi)

pino cervello fuso indifeso
tenero allegro talmente
disperato da legarsi al palo
del telefono come ulisse dice
che disse a nessuno – a nessuno
più parlo e telefono
ma poi s’alza in volo – poi –
goffo gabbiano grasso e ride
ride di gusto: che bonzi gonzi siete
che vivete nel paese degli sprechi e dei balocchi – attenti!
che vi porteranno via tutti divisi e fusi
come me che – orbo di verità e senza un occhio –
chiamano tutti pinocchio

sono l’unico ormai che dall’alto può cantare
nel berlusconistan nel berlusconistan
esplodi seme esplodi e fammi sentire
fammi sentire il suono della vita che
rinasce e rinasce nel micro e nel macro
non voglio più sentire urla di ignoranti
morsi sibili e sterco onnipotente
in groppa a salmi cornacchie e bla bla
di delinquenti seduti in parlamento
leniti solo da versi di comici e cantanti

*
immagini di bianco e luce
su ali resistenti nella carne
che riportano alla prima
fonte mai perduta di vita
campi di neve al sole che
una coperta ponevano tra
fame del presente e futuro
promessa sotto la neve pane

affido a voi l’assolo di questa
terra che cerca ancora testarda
rinnovati padri e madri al croce
via tra questi sassi chiusi e proci

con folli ulisse e mille penelopi
nere che sanno i lampi e canti
i riti e miti d’amore indomiti
che coltivano ancora semi

***

(da SEMI PARTE II)

Coltello necessario

(immenso spettacolo e lunare
accerchiato da una vita accanita
che sguarnita e inarresa annusa
come un orso ferito
al cuore

ma conviene ripartire da te
da questa punta di miele la mattina
per viaggiare lungo gli orli
dell’orrore. Amore
unico coltello necessario
a fare dell’orrore un ventre aperto

Quale bellezza

Abbagliato imberbe e senza parole
rimase dalla bellezza trafitto e
reso palloncino panico e afflitto

gonfio solo della tonda domanda
se la bellezza era questa sconfitta
che taglia alla gola le solite parole.

Poi imparò dai più grandi – Dante etc. – che
ogni scuro squallore e viso sfigurato da
dolori e orrori più atroci ti sfidano

ad accendere segni che come amante
rovescia in luce la fragile clessidra
della bellezza che ti apre al mondo

E si volse alla bellezza che toglie
parole a chi ne ha paura e si chiude
o ama chiudere nel suo sacco il mondo

scegliendo tra potere e bellezza il polo
che insiste non si arrende e resiste
tra la morte e la vita che continua

Memorie del futuro

La cenere dei fumi di Auschwitz
così bianca e viola infine rossa
batte batte dentro al cuore come
blatta che non volerà rimarrà

a rodere tra questi ruderi nutrirà
il nostro sangue nero sconfinato
insaziabile non si fermerà vorrà
sfamarsi di ogni sangue e vittima

diventata cenere deporla
nelle mani di Cerere a farne
messi di una Terra non più
prona a poteri e follie di ieri e

di oggi che sappia pesare
sulla stessa bilancia ogni
grammo di carne umana
rossa poi viola infine bianca

offerta al dio di tutti
i popoli di tutte le terre
ricche povere e senza
privilegi né figli prediletti

di una Terra non più
crocifissa da confini e
tavole imbandite da eletti
assediate da cumuli di blatte

affamate impazzite –
se questo è un uomo

*
META!
(Sud e Quid)

……………………………………

in gesti d’assalto al cielo alberi alati
di ulivi e limoni e fichi e mandorli
incontenibili sfidano lo spazio sopra
erbacce della gioia e ramaglie dell’invidia
intrappolate in gabbie di reti e pali
orlate lassù da corone di viti succhianti
il sole più feroce e dolce, stordite
in un vento salato e secco, incapace com’è
di portare sull’ali una sola lacrima di mare
………………………………….

è qui, tra gli orti di Sorrento è il Caos più totale:
tra patetici paletti di noccioli e reti cordiali e scure
esplodono infiniti i succhi dell’immenso flusso.
Qui s’affannano gli uomini a inventare sipari e
ombre e poi s’acquietano esausti a contemplare
sterpi tra forre e improvvisi sprofondi
quasi arresi all’invisibile, invincibile fonte
………………………

si sono arresi dunque al silenzioso caos
emergente da un’origine nascosta
di energia. Si sono arresi come pupille
spalancate da un bagliore non più
capaci di compiere il dovere
di rendere ragione. A imitazione insana di
un’incontenibile miscuglio di
dolcezza e di violenza, da questo Cono
che ha smesso di fumare e fino al mare
si distende insensata un’immane resa
di scatole chiamate case, informi
insiemi di cose che vagano affollate tra
brandelli di vita verde che non si arrende

Il Quid e le vendette di Venere

macchiarossa che al silenzio resiste o
morbida dolcissima prugna che al sole e al vento
lacrimando si apre e si distende
(e) travolge offrendo i suoi invisibili carnosi
succhi scoppiando le risa incuranti
di dolori orrori e corrosi pensieri

(come preme e morde in fondo al ventre
il bisogno e la febbre
del mare irrisolto della vita

(e lacrimo infine anch’io
davanti a questo tuo corposo caos
di eros e di tormento –
dentro te dolce Sorrento
così immersa nel blu
di ogni cosa

*
Zante brillava come stella nel mare così caro a Venere
mentre una nebbia d’idee filtrava i raggi frenati un po’
a costruire cristalli e castelli di travisa menti e illusioni

ma le pretese de’ liquidi cristalli e ‘sì gelidi furono sciolte
da un improvviso imprevisto scatto della cosa che stava
in un angolo curvo della casa che Venere con tutto il suo

intatto amore sapeva custo-dire per chi sapeva – tanto che
riemerse col suo fulgente fulgore di Afrodite che non
smette non smette di rifare il mare le stelle e le altre cose

*
Quel Quid immerso nel caos-cosa dell’universo
non è nascosto tra le mani del mondo né è sogno
che l’umile amore di una Rita o un Francesco può
scovare e tantomeno un frutto di risaltante risultato
da stringenti somme divisioni e altre operazioni
della folgore geniale di un folle scienziato. Quel
Quid che non torna rimarrà un esule introvabile
a consolazione dell’infimo e dell’immenso


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