Da qualche parte, sperduto tra la Bassa e gli Appennini, c’è un piccolo borgo. Sua sola gloria, suo tormento e unico ricordo felice è un cinema, ormai in rovina. Il cinema Adamante è il cuore scuro ma ancora pulsante di Case Adamo, il mantice che soffia sui rancori, i desideri e gli istinti più nascosti di tutti gli abitanti.
Il cinema appartiene, fin da quando il Duce lo inaugurò nel 1936, alla stessa famiglia, i Biasetti, ma ora qualcosa sta per cambiare. E questi cambiamenti coinvolgeranno il paese intero.
È da questo punto che prende il via la narrazione di “Adamante – Ciò che resta del nero”, di Maria Silvia Avanzato, romanzo che si presenta da subito come una Peyton Place in salsa emiliana. Ogni capitolo si apre infatti con un “Si dice” che svela un pettegolezzo, un’ombra, la colpa di uno degli abitanti di Case Adamo; così che tutto il mondo che si agita attorno all’edificio sconnesso si tinge d’ombra, sfogliandosi, spogliandosi dalle apparenze di pacifica normalità, mostrando pian piano le sue miserie.
Si dice che la Madonna del Bosco fosse chiusa per scongiurare il pericolo di crollo. Altri dicono che i peccati non si possano lasciare alla luce del sole.
Tra l’emporio, il bosco e la Casa di Confine, dall’orrido alla cappella votiva e fino alla macelleria dei Guerzoni, rimbalza così una sfilata di personaggi degni di Hyeronimus Bosch, una sarabanda di peccatori non ravveduti, anzi convinti delle loro male azioni. In questo mondo buio segnato da infedeltà, ricatti, violenze, omicidi non esiste pentimento perché non è prevista redenzione. Le vittime sono esse stesse carnefici e forse i carnefici hanno la scusante dell’esser vittime a loro volta. Ma poiché tutti hanno colpa, nessuno ne ha, almeno finché resta chiuso nell’ambiente malato di Case Adamo. Il paese è tana e galera, carcere e via di fuga insieme: qui non si vive, ma da qui non si scappa.
La storia è intrigante e ben costruita: un anello dopo l’altro si srotola la catena che lega i personaggi gli uni agli altri –vivi e morenti e morti- ed è interessante notare che a tenere gli estremi della catena siano ben due “esseri” inanimati, muto l’uno ma dalla bocca enorme e famelica, loquace l’altra, invisibile spia dei vizi altrui.
La scrittura è sovraccarica e rallenta la lettura, a tratti faticosa; tuttavia questa sovrabbondanza collosa di termini, definizioni, aggettivi, paragoni ancora una volta mi ha fatto pensare a Bosch: questa profusione sembra invischiare il lettore e disegnare nei minimi dettagli ogni neo, ogni difetto, ogni cedimento e sottolinearlo. Senza commiserazione, anzi, con un compiaciuto gusto dell’orrido.
“Adamante” insomma è la casa degli specchi di tutta la bruttezza umana: ovunque si posi lo sguardo, nessuna tregua dall’orrore. Che anzi aumenta quando ci si accorge che il riflesso deformato sul vetro cattura il volto di una persona che siamo certi di conoscere. E potremmo persino essere noi stessi.
Francesca Schipa
Adamante, Maria Silvia Avanzato – Ed. della Sera, 2013 – 234 pagg. – 13 euro