Era l’ultimo dei grandi italiani che fecero la stagione d’oro del nostro cinema a partire dai gloriosi primi anni Sessanta. Mentre Fellini sdoganava la mondanità romana, Visconti omaggiava l’Ottocento in forma operistica e Antonioni apportava al linguaggio cinematografico una inedita forma di incomunicabilità, Rosi faceva una scelta di enorme coraggio puntando su un cinema di denuncia e di cronaca.
Nato a Napoli il 15 novembre del 1922, il regista e sceneggiatore Francesco Rosi si è spento a Roma all’età di 92 anni lo scorso 10 gennaio, dopo aver lasciato un segno indelebile nella storia del cinema italiano ed erupeo.
La grandezza di Rosi non sta soltanto nell’aver trattato argomenti assai scomodi in un’Italia democristiana di forti contrasti e connivenze ambigue. Le mani sulla città (1963) e Salvatore Giuliano (1962) sono senza dubbio diventati i due capolavori simbolici del cinema di denuncia nel nostro paese e in tutto il continente europeo, con una rilevantissima importanza storica. Il contesto in cui uscirono queste pellicole era molto diverso dal mondo che conosciamo noi oggi. Le allusioni furono di un realismo e di una aderenza impressionante per l’epoca e provocarono perciò uno scandalo nazionale di vasta portata.
Photo credit: e://Dantes / Foter / CC BY-SA
Ma lo splendore della sua carriera di autore risiede nell’armonia che seppero offrire i suoi energici lungometraggi in un equilibrio inedito che solo a lui appartenne. Quello di riuscire cioè a fare un cinema di taglio documentaristico e allo stesso tempo di scostarsene con un’aggressività ferina che era in grado di competere con il miglior cinema d’azione statunitense. Salvatore Giuliano parla ancora oggi ai suoi spettatori come potrebbe farlo un libro di storia o anzi un articolo di fondo in un quotidiano del tempo. Ma chi potrebbe negare che al tempo stesso esso fu un eccellente film d’ azione e un melodramma dai connotati quasi italoamericani?
Anche nel raccontare la sua Napoli Rosi non mancò di giocare su tale apparente contrasto le sue carte vincenti. Le mani sulla città, nonostante gli enormi meriti nel campo documentaristico, certamente trascende gli stretti confini del genere perché l’eleganza e l’efficacia della sua scrittura, unite a una straordinaria direzione di attori e caratteristi, ne fanno un reperto storico che va ben oltre la mera e tediosa archeologia di molti capolavori di museo. Basti ricordare l’interpretazione di Rod Steiger, forse la più alta della sua lunga e veneranda carriera, di un’efficacia quasi improbabile nella sua ricchezza di sfumature. E ciò è innegabile che sia ben testimoniato dal fatto che a oltre cinquant’ anni dalla sua uscita rimane un punto di riferimento nell’illustrazione geopolitica dell’assetto urbano di alcune città italiane di un dopoguerra proteso verso la speculazione edilizia. Ancora più marcato fu il target del cinema gangsteristico americano in Lucky Luciano, che pure a sua volta non potrebbe essere definito appieno un gangstermovie perché al suo interno si mantengono saldi spunti di riflessione tipici di un certo cinema a cadenza europea. Anche il Caso Mattei e il fortunato Cadaveri eccellenti (con una magnifica sequenza di apertura nella cappella dei Cappuccini in Palermo) aderirono pienamente allo spirito denunciatorio del loro autore.
Quanto abbia influito sulla sua vocazione l’esperienza fatta con Luchino Visconti come aiuto regista non è esprimibile in parametri fissi. Certamente nel cinema di Rosi è presente una vocazione anzitutto (neo)realista che molto rimanda al cinema del primo e giovane Visconti, ma il suo cinema non fu quello di Rossellini né di De Santis e sarebbe folle accostare il suo nome a tale ortodossa tradizione. Francesco Rosi è stato intellettualmente lucido fino all’ultimo, tanto che poco tempo fa a riguardo ebbe a dire di essersi sentito indubbiamente un figlio del neorealismo senza essere neorealista.
A pochi giorni dalla scomparsa di Pino Daniele, Napoli ha perduto un’altra delle colonne che l’hanno sostenuta, onorata e dissacrata nel secondo Novecento. Napoletani e italiani in generale ebbero della sua carismatica e affabile persona una stima al di sopra delle parti. Tirate le somme è, però, opportuno ricordare Francesco Rosi non come un cronista di cinema ma come un raffinatissimo autore. Di Salvatore Giuliano -Uscì vietato ai minori di 16 anni (!)- tutto giocato su una magistrale fotografia di Gianni di Venanzo e su tre differenti gradualità di bianconero a seconda della narrazione cronologica, si potrebbe dire senza vergogne né cadute che è il più grande film della storia del cinema italiano.
QUI potete consultare la pagina wikipedia dedicata a Francesco Rosi.