Levati e ascolta le campane, Robin. Hai colto l’attimo anche questa volta. Sempre attivo, alla ricerca di quella risata che sapevi suscitare così bene nelle vite degli altri, anche di chi il cinema lo ama sporadicamente o l’ha amato principalmente per te, e che così poco riuscivi a regalare alla tua esistenza. Hai colto l’attimo, anche questa volta. Il tuo ultimo carpe diem è stato ieri alle 11,55 (ora americana), nella tua casa di Tiburon, in California, quando una chiamata al 911 ha svelato al mondo che tu avevi scelto di andartene. In modo improvviso, ma poi nemmeno tanto, diciamocelo.
La depressione purtroppo ti aveva oscurato l’esistenza. Sapevi che poi non sarebbe bastato un urlo alla Peter Pan o un incitamento alla “Capitano, mio Capitano” per riportarti tra noi, Robin, ma probabilmente volevi che fosse così. Sì, è bizzarro che, nel ricordarlo, si dia del “tu” ad uno dei più grandi attori della storia del cinema, premio Oscar nel 1998, stand-up comedian in origine e in realtà interprete a tutto tondo, di immensa versatilità e genio artistico; ma è così che ci saremmo rivolti a lui, se avessimo avuto la fortuna d’incontrarlo. E allora informalmente ci rivolgiamo a te così, perché il formale distacco l’avresti potuto prendere come uno sgarbo.
Tu che eri l’attore di tutti fin dal principio, nato a Chicago, cresciuto a Detroit, studente alla Julliard di New York e amante di San Francisco e delle sue strade saliscendi, metafora della tua vita. Perché tu, Robin McLaurin Williams, più di ogni altro attore degli ultimi trent’anni, hai saputo unire critica e pubblico con doti delicate, con la tua talentuosa e quasi spirituale empatia, il tuo essere amorevole e generoso nella malinconica e brillante vivacità che traspariva dalle tue interpretazioni. Andavi oltre il talento e la comicità, oltre il dramma e l’amarezza. Oltre la felicità e il tormento di vivere. Hai preso la vita senza filtri, nel bene e nel male, e ti sei fatto amare così.
Le tue doti istrioniche da meraviglioso improvvisatore hanno colpito Ron Howard ed Henry Winkler, che hanno visto nascere il personaggio dell’alieno Mork, il tuo primo lancio di gioia e riso dal piccolo schermo di una serie, Mork & Mindy, diventata di culto, come la frase “Nano, Nano!”. Il personaggio di Braccio di Ferro che Robert Altman ti ha affidato agli inizi degli anni ’80 in Popeye, così amato dal pubblico per la sua indomita forza, si è reso paradossalmente parallelo all’inizio delle tue fragilità. La cocaina, l’alcol e, come il tuo amico John Belushi, quella mancanza di filtro che non ti proteggeva dal male, prosciugato da tutte le risate che erano solo per il resto del mondo, che poi avresti saputo meravigliare semplicemente con uno sguardo amaro, delicato ma teneramente intenso, vera essenza della tua recitazione, ancor più delle buffe smorfie.
E poi eccoli lì, i primi ruoli indelebili al cinema. Lo scrittore Garp, oppresso da una madre ingombrante, ne Il mondo secondo Garp ha preceduto il tuo primo personaggio dalla grande importanza iconica: nel 1987 ti trasformi infatti nel disc-jockey d’aviazione Adrian Cronauer in Good morning, Vietnam di Barry Levinson, che ti ha permesso di sguinzagliare la tua bravura nell’improvvisare e ti ha consacrato ad Hollywood, facendoti ottenere la prima nomination all’Oscar. Ma è impersonando nel 1989 il rivoluzionario professore John Keating che passi alla storia, con brillanti e impetuosi monologhi entrati nel cuore e nella mente di chiunque abbia fatto di quel film, L’attimo fuggente di Peter Weir, un passaggio importante anche nella propria vita.
Da lì in poi non ti sei mica più fermato, sai, Robin. Inizi gli anni ’90 recitando al fianco di una leggenda vivente e un tuo grande amico, Robert De Niro, in Risvegli, dove interpreti la vera storia del dottor Malcolm Sayer, che alla fine degli anni ’60 scopre l’effetto positivo di un nuovo farmaco nella lotta contro il morbo di Parkinson. Il Sacro Graal diviene per te un’ossessione nel 1991, ne La leggenda del re pescatore, nella parte del clochard Parry accanto a Jeff Bridges, diretto da Terry Gilliam. Ma in quel decennio sei diventato un’icona anche per una generazione di bambini che hanno amato i tuoi ruoli nello sfarzoso Hook – Capitan Uncino, in cui duettavi e duellavi meravigliosamente con Dustin Hoffman nel ruolo di un maturo Peter Pan, e in Jumanji, in cui, nella parte di Alan Parrish, eri costretto a vivere per anni in una giungla, finchè “un 5 e un 8 non compare”.
Un sunto delle tue straordinarie capacità ce lo hai regalato nel 1993, quando ti sei trasformato mirabilmente in Mrs. Doubtfire pur di poter star vicino ai tuoi tre figli dopo la separazione dalla moglie (Sally Field). Eri dotato inoltre di un sorprendente tocco magico con il quale riuscivi a segnare e rendere amate pellicole bistrattate dalla critica ma ricordate con grande affetto dal pubblico; come quando hai interpretato il dottor Patch Adams, pioniere della risoterapia, basata sul miglioramento della qualità di vita del paziente, alla fine degli anni ’70. Oppure ne L’uomo bicentenario, diretto nuovamente da Chris Columbus dopo Mrs. Doubtfire, riuscendo a commuoverci nelle vesti dell’androide Andrew Martin, che per amore decide di passare dalla condizione di immortalità meccanica a quella della mortalità umana.
Ops, quasi dimenticavo il pazzo personaggio del professor Philippe Brainard in Flubber, ma puoi scusarmi la dimenticanza visto che, quell’anno, arrivò finalmente il ruolo che ti permise, alla quarta nomination, di raggiungere il premio Oscar: in Will Hunting – Genio ribelle di Gus Van Sant, accanto ad un problematico Matt Damon, hai interpretato lo psicologo Sean McGuire con un toccante monologo diventato uno dei simboli della tua carriera, al pari di quello ne L’attimo fuggente. Ma come dimenticare anche il giocattolaio di Toys o l’omosessuale Armand Goldman in Piume di struzzo? Anche da doppiatore hai lasciato il segno, prestando la voce al Genio della lampada nell’Aladdin disneyano e al film d’animazione Happy feet.
Certo dagli anni 2000 in poi le tue produzioni non hanno avuto lo stesso riscontro di pubblico e critica di quelle del passato, ma qua e là hai continuato a lasciarci delle chicche da ricordare. Come il pericoloso Walter Finch di Insomnia, diretto da un giovane regista rampante, Christopher Nolan, o il divertentissimo Theodore Roosevelt della saga Una notte al museo, insieme a Ben Stiller. Senza dimenticare il Tom Dobbs de L’uomo dell’anno, richiamato per l’occasione, a 19 anni di distanza da Good morning, Vietnam, da Barry Levinson. Sono recentissime invece le riprese (e purtroppo la chiusura anticipata) della serie Tv The crazy ones, che segnava il tuo ritorno sul piccolo schermo in un ruolo da protagonista dai tempi di Mork.
Amarezza certo, ma anche un accenno di sorriso, perché postumi usciranno ben tre tuoi film. Non avevi perso la voglia di stupire gli altri, ma forse questo non è bastato. Ti salutiamo con il sorriso, Robin. Perché, come da te dichiarato in passato e ricordato anche ieri dalla tua terza moglie Susan Schneider, tu avresti voluto che si fosse raccontato quante risate e quanta felicità hai portato nel mondo grazie alla tua carriera e alla tua bravura. Perché anche John Keating diceva che le cose vanno sempre viste da angolazioni diverse. E allora noi amaramente sorridiamo, caro Robin. L’attimo è stato colto.
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