Quel lento non andò come speravo, perché non ci fu il bacio agognato. Tutta colpa mia, fui imbranato quanto Ricky Cunnigham nella prima puntata del telefilm Happy Days. Eppure le canzoni di Whitney Houston me le portai nel mio primo viaggio all’estero, al di là della Manica. Ci ritrovammo noi, un gruppo di adolescenti romantici, ad ascoltare la principessa scalza del pop-soul in un parco della contea del Kent. Alcuni bulletti inglesi si sparavano ad alto volume musica elettronica e noi rispondemmo con toni diversi. Mettemmo le mani avanti con il vocione della Huston che cantava: “I Wanna Dance with You”. E pensare che fino ad allora mi vergognavo, perché volevano convincermi che quella fosse soltanto robetta da ragazzine mielose.
La mia generazione fu accusata dai ripetenti sessantottini di non avere un repertorio di canzoni impegnate, perché i grandi cantautori se l’erano giocata tutta nei Seventies. A noi rimanevano soltanto briciole e degli avanzi non sapevamo che farcene. Attraverso il repertorio di Whitney Houston stendemmo al sole del Soul i nostri sogni, teneri e irrinunciabili. In questa domenica di febbraio la sua scomparsa ha lo stesso valore di quella di Amy Winehouse per la generazione Y. La vita privata si arrugginisce, ma la storia musicale no, anche se di mezzo ci sono infiltrazioni pop di una voce nera indimenticabile.
Addio a Whitney Houston, stella della black music che ha illuminato gli Ottanta