Proprio in questo momento un gruppo di adolescenti stranieri gioca a calcio nel giardino dietro casa mia. Un’immagine non inconsueta, si direbbe. Perché allora mi sembra strano? Prima di tutto manca la polvere. Non riesco ad associare nessuna idea al calcio in cortile senza la polvere, o il fango (quando ha piovuto). Qui c’è un prato curatissimo, in lieve pendenza. Si capisce che non è fatto per giocare al calcio. È per così dire troppo integro, troppo ospitale per essere ospitale. Infatti questi ragazzi hanno un po’ l’aria di essere degli intrusi, si passano la palla in modo dimostrativo, ma non sembrano veramente coinvolti da quello che fanno. Appaiono svogliati, ecco. Poi sono troppo “simili” (alti uguali, probabilmente tutti della stessa età). Manca quel carattere un po’ da mucchio selvaggio (grandi e piccini) che io associo forse ai miei ricordi, quando si stava per l’appunto “giù” tra di “noi”.
La foto di Pasolini che gioca a calcio nelle borgate è a mio avviso una delle più belle del poeta. Anche perché rende poetico il gioco del calcio nella sua spontaneità un po’ rude e sguaiata (lì s’intuisce la polvere e il fango, sarà per questo) eppure ancora gioiosa, sullo sfondo di una vita che proprio gioiosa non era. Valerio Magrelli (un altro poeta) ha dedicato al gioco del calcio un libro bellissimo (Addio al calcio, Einaudi 2010), nel quale è riuscito a tessere tutta una trama di memorie e di percezioni finissime. Alla fine diventa un’autobiografia completa (anche nel senso di autobiografia della nazione, direi, e infatti c’è un capitoletto intitolato Mio padre, Mussolini e la fotografia). Correre, correre e correre dietro a un pallone, senza quasi vedere altro. Per molti è stato così. Ma oggi io penso che quell’incantesimo si sia un po’ rotto. E non solo per me, ovviamente.
(Intanto quei ragazzi hanno smesso di giocare. È durato poco, come previsto).