Così recita un dialogo fulminante ne Il divo (uno dei tanti), quello tra Francesco Cossiga e il solito, magistrale Toni Servillo:
[Andreotti] Sai cosa mi scoraggia? La notizia che sono stato rimosso dalla Presidenza dei Circoli Musicali. Poi mi toglieranno l'incarico all'Istituto di Studi Ciceroniani e magari anche le lauree honoris causa
[Cossiga ] Ho sempre pensato che la mia vanità fosse un gran peccato, ma parlando con te mi conforto.
[Andreaotti] La vanità non c'entra. Io vengo dalla provincia, dalla povertà. La legittimazione culturale nella mia vita è sempre stata più importante di quella politica. Ho sempre preferito che si dicesse di me "è un uomo colto" piuttosto che si dicesse "è un grande statista".
Perché tirarla fuori l'indomani del giorno in cui Berlusconi (non) ha venduto il Milan? Non certo per imboccare la tiritera del peggioramento dei costumi, hobby praticatissimo presso il nostro popolo fin dai tempi di quel trombone di Catone il Censore. La tentazione è forte, sottolineare quanta decadenza porta con sé il passaggio Prima - Seconda Repubblica, là dove c'era la legittimazione attraverso la cultura è spuntata l'affermazione attraverso il più becero dei panem et circenses. La minestrina del facile moralismo la sciropperemo un'altra volta.
Piuttosto, fermandoci un passo prima, potremmo provare a considerare cosa fu il Milan per Berlusconi. Alcune leggende metropolitane hanno sussurrato addirittura che in principio fu un cambio di casacca: Berlusconi interista che per opportunità e opportunismo diventa milanista. Stando invece alla versione ufficiale (non c'è motivo per abbandonarsi almeno a quel retroscena, che pare confezionato apposta per dipingerlo definitivamente mefistofelico: le uniche due cose certe della vita sono la mamma e la squadra di calcio, insomma!), Berlusconi acquistò la squadra per cui tifava. Filantropia? No, piuttosto mecenatismo.
Il Milan per Berlusconi fu il biglietto da visita per passare dall'essere miliardario all'essere qualcuno: un accredito presso il popolo, un manifesto per il circo mediatico. Smetteva di essere un ricchissimo brianzolo ed iniziava ad essere fabbricante di sogni, almeno per chi per il Milan tifava.
Utilizzato per presentarsi in grandissimo stile nel jet set italiano, incluse alcune tamarrate epiche come l'arrivo in elicottero all'Arena Civica di Milano con sottofondo wagneriano, il Milan è servito per rinfrescare - trionfo dopo trionfo - l'immagine di un Berlusconi vincente, anzi di più, dominatore.
Il suo bacino elettorale attinse a piene mani dai catini d'utenza delle sue imprese affacciate sulla plebe, la squadra di calcio e le bamboline delle sue televisioni: non a caso i roboanti acquisti di figurine che negli ultimi anni hanno costellato il declino politico dell'uomo e calcistico della società coincidevano con cruciali appuntamenti elettorali: Politiche 2008, Ronaldinho e il ritorno di Shevchenko; Regionali 2010, Beckham; Politiche 2013, il ritorno di Kakà.
Il graduale disimpegno dal suo costosissimo tabellone pubblicitario a tinte rossonere segna l'inizio di una nuova fase: con ogni probabilità Berlusconi si ridimensiona; non solo politicamente, quello lo sapevamo già, ma anche economicamente. Non a caso si sta vociferando della cessione addirittura di Mediaset, attraverso un mega-accordo tra due controversi filibustieri del mezzo secolo appena passato, Rupert Murdoch e appunto Silvio Berlusconi. Se tutti avevamo la certezza che l'impero con capitale Arcore sarebbe stato equamente diviso tra gli eredi del monarca, ora potremmo esser costretti a rivisitarla: salva la Mondadori, che resta saldamente in mano alla più affilata delle principesse, la coriacea Marina, le altre imprese vacillano - con conseguente bocciatura di altri due rampolli, Barbara e Piersilvio.
In questo senso, c'è una logica nei paralleli ritiro politico e smantellamento economico: l'unico istinto che restava al tycoon (che ha perso la sua efferata guerra con la magistratura e in senso lato con lo Stato italiano) era conservare il tesoro pro domo propria, come del resto aveva fatto in tutta la sua vita.
Il ritiro delle truppe potrebbe significare che lottare allo strenuo per consegnare il potere ai figli, semplicemente, non ne valga la pena: se per inettitudine degli eredi o per impossibilità di fatto, non è dato sapere.
Nel frattempo, la cronaca registra che Silvio è ancora un discreto ghepardo: ha convinto l'intermediario Bee Tacheubol (non sarà il thailandese a comprare: dietro pare vi siano misteriosi capitali) a comperare la minoranza una società disastrata per mezzo miliardo di euro esclusi i debiti. In altre parole: l'orientale ha sborsato una cifra esorbitante per non avere l'ultima parola (gli sarà ceduto "solo" il 49%) e per fare a metà dei debiti. Se non ci fosse dietro un probabile ulteriore accordo, saremmo ai limiti della circonvenzione di incapace.
Prima o poi il Milan passerà definitivamente di mano. Nel frattempo, registriamo un cambio di scenario: si passa dai mecenati del pallone (i quali volevano, come detto, diventare qualcuno) agli imprenditori, che pretendono di fare business. Finisce, come tutti dicono, un'era. Non gli anni '80: quelli, tra mitologia e odor di stantio, ce li porteremo avanti ancora per un po'.
Umberto Mangiardi
@UMangiardi