Claudio Marabini gli aveva chiesto che effetto gli avesse fatto partire da Santarcangelo verso la capitale per lavorare nel cinema. Guerra rispose: "Nessuno. Mi fece effetto arrivare! Avevo
trentadue anni e Savignano era il mio confine".
La storia di Tonino Guerra è tutta qui, come quella di Federico Fellini. L’addio alla provincia, la fuga "altrove", in un mondo vero che diventa poi il mondo impareggiabile delle fantasie e dei
sogni, ovvero dell’arte.
Ripesco velocemente dall’archivio alcune vecchie cose scritte su Tonino Guerra.
In un Tama del 1996 ricordavo che Gassman lo aveva intervistato a Santarcangelo. Tonino Guerra aveva spiegato che i romagnoli (adesso) «sono ignoranti», aggiungendo: «L'ho detto tante volte, però
poi se la prendono con me. Ma è la verità. C'è questa forma di disprezzo per la pagina, per le cose scritte. Però, siccome [il romagnolo] è così ardito, è avventuroso nel creare le cose, può
anche giustificare questa sua distrazione».
Il discorso di Tonino Guerra m’apparve più di una semplice battuta di spirito. Come tale invece doveva averla presa il regista della trasmissione di Gassman, perché prima delle parole del poeta
di Santarcangelo aveva inserito l'immagine di una signora che sbadigliava (mentre per le ragazze di Torino, c'erano stati soltanto primi piani di intensa partecipazione ai racconti sulle follie
di Alfieri).
Nel gennaio 1997, in un altro Tama scrivevo che i pochi centimetri di neve di fine dicembre avevano permesso alla Stampa di Torino di intitolare a piena pagina un servizio di Pierangelo Sapegno:
"A Rimini un replay di «Amarcord»", con foto di Tonino Guerra ed interviste a Piero Meldini e Pietro Arpesella. Grand Hotel e dintorni.
Sapegno aveva scritto: «A Rimini, la neve è roba di bimbi». E giù con la solita solfa, aggiungevo: «Ci fosse Fellini, potesse vederli. E Gradisca, che cosa diceva, la Gradisca?».
Concludevo amaramente che "il tempo passa inutilmente per Rimini che resta questo eterno francobollo felliniano, dove accanto a Gradisca c'è però anche lo zio di Titta, quello che fa dare l'olio
di ricino al cognato ribelle, e che non crede che la neve attacchi. Fellini, i riminesi li ha presi per i fondelli, ma noi facciamo finta di niente, risultando, come a lui piaceva, dei perfetti
pataca".
Per il funerale di Federico Fellini nel novembre 1993, Tonino Guerra aveva parlato dal palco assieme a Sergio Zavoli.
Nella stessa mia rubrica del Ponte, il Tama, scrivevo: “Davanti a me, un ragazzo continuava a sistemare i suoi lunghi capelli sulle spalle, nell'eleganza geometrica da ragazzina anni '50; vicino,
un'anziana coppia si stringeva affettuosamente, guardando verso il colonnato dell'ex teatro; più avanti, una signorina piangeva senza asciugarsi le lacrime; poi, un gruppetto di coetanei ed amici
di Fellini, che non erano saliti «tra le autorità», ma avevano voluto mescolarsi all'anonimato di una folla più commossa che curiosa, che al silenzio del rispetto alternava gli applausi ai
discorsi, sottolineando i passaggi che toccavano l'attualità, grigia come quel cielo d'autunno”.
Nel 2001 pubblicavo sempre sul “Ponte”, l’articolo che segue e che vuole essere un sincero saluto ad un maestro, sì perché Tonino Guerra era proprio un maestro elementare, aveva studiato in
quella Forlimpopoli dove tanti romagnoli convenivano, come mi ricordava mia zia Anna che saliva a Cesena e che viaggiava sullo stesso treno di Tonino, il quale era un po’ deriso dai compagni di
viaggio e di studio perché era molto “bascozzone”.
Questo è il pezzo del 2001.
Nelle enciclopedie future, alla voce «Guerra, Antonio [Tonino]» forse si leggerà che il celebre santarcangiolese non fu soltanto poeta e sceneggiatore, ma apparve anche sui giornali ed in tivù
nell’estate 2001 come testimonial di una catena di supermercati d’elettrodomestici, all’insegna d’un motto che all’apparenza dovrebbe fare epoca, «Benvenuti nell’era
dell’ottimismo».
Non interessano le motivazioni presentate alla stampa dall’illustre romagnolo per giustificare la sua scelta («devo tirare avanti con due milioni» al mese), ma suscita qualche meraviglia la sua
improvvisa (e per certi aspetti imprevedibile) conversione a quello che Enzo Biagi l’altro giovedì definiva chissà come un «falso problema»: il consumismo.
Guerra è stato il disincantato menestrello delle cose perdute, delle civiltà tramontate, di sogni mai realizzati, della leggerezza che la poesia porta nel cuore dell’uomo anche nei momenti
tragici. L’abbiamo sempre ascoltato estasiati mentre con la sua fascinosa cantilena elogiava la ricerca dei segni del tempo andato, su per queste colline che diventano impercettibilmente monti, e
parlano col cielo durante le piogge od aspettando il sole, salutando un tramonto.
La tivù ed i giornali ci mostrano Guerra, con la stessa voce, lo stesso sorriso, la stessa intelligenza, ed un discorso che sembra aver dimenticato tutto quello che fino ad ieri lui era stato:
l’incantatore dei sogni, uno che al posto del violino suonava le parole, e faceva spettacolo con quel «poco» che è la grandezza della fantasia e dell’intelligenza.
Ce lo ritroviamo in apparenza come filosofo dell’industrializzazione, pensatore confindustriale, ma in realtà potrebbe essere ancora quello di sempre. Uno che con cinquant’anni di ritardo s’è
reso conto, perché glielo hanno detto i pubblicitari, che le donne quando lavavano i panni al fiume o nei mastelli si spaccavano la schiena, mentre adesso grazie ad una macchina, una vituperata
macchina, possono impiegare diversamente il tempo del bucato.
Oggi, la gente sorride ancora davanti agli «oggetti che ci tolgono la fatica o ci fanno compagnia», come recita il suo slogan? Nelle grandi città, un modo per passare il tempo, è spesso quello
(alienante) di rinchiudersi con la famiglia in un iper per dodici ore filate: vetrine, patatine, detersivi ed una birra gelata. Alla sera, sono persone più felici che all’inizio della giornata,
dopo aver visto tanti «oggetti» che magari non possono acquistare?
Intanto un’altra catena commerciale promette: «Non c’è più religione. (Adesso siamo aperti tutte le domeniche.)»
Antonio Montanari
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