ADDIODUEMILA
di Marco Vignolo Gargini
Dedicato a mio padre, Saverio Gargini, e a tutte le persone “senza nome” che nel silenzio lottano e hanno lottato contro il cancro.
Antefatti…
Un tempo dicevo, mi dicevo, che ero passato dal comporre poesia alla scrittura in prosa perché mi piacevano le sfide complesse, perché credevo che questo tipo di esercizio mi avrebbe istigato alla riflessione, che più che parlare di me, come soggetto da svelare nel racconto, avrei narrato le suggestioni oscure, i veri e propri buchi neri che mi hanno emozionato, attratto, inquietato, e bla, bla, bla.
Il 5 agosto 2001 moriva mio padre. Ho perduto un riferimento, ho perduto il riferimento. Se ne è andata la persona che più di tutte credeva in me, nelle mie potenzialità, quindi nella mia scrittura. Con mio padre ho condiviso i primi momenti di illusione e poi di delusione per i tentativi di far pubblicare il mio primo romanzo, e altre mie composizioni. Ho avuto accanto qualcuno che mi incoraggiava a non mollare MAI, anche e soprattutto quando ho avuto la tentazione di lasciar perdere tutto.
Fino all’ultimo mio padre s’è interessato alla mia attività. Adesso ho davvero uno scopo per scrivere: rendere omaggio a mio padre, non deluderlo, dimostrare che la sua fiducia nei miei confronti è ben riposta.
Se oggi sono qui è solo ed esclusivamente per ricordare mio padre.
Dal 5 agosto 2001 presentando le mie opere io farò sempre riferimento a lui.
Sono divenuto “figlio della collera”, mio malgrado. Mi sono sempre infervorato per i principi in cui credevo, però m’è mancato quell’impeto tutto viscerale che poteva rendere le mie lotte ancora più nette e, soprattutto, pratiche. Come sognatore vagheggiavo un mondo diverso da questo, ma fortunatamente non ho mai avuto la presunzione di considerare il mio mondo, che avrei desiderato sostituire all’attuale, un mondo migliore, il mondo in assoluto. Rispetto agli idealisti che si buttano a capofitto in un movimento, nella battaglia pro o contro qualcuno o qualcosa, io mi sono arreso prima di sfociare in un combattimento corpo a corpo, forse già disilluso, cosciente che, come dice Hölderlin nel suo Hyperion, “Tutte le volte che l’uomo ha voluto fare dello Stato il suo cielo, lo ha trasformato in un inferno”. Nessun disfattismo, nessun nichilismo, quindi, però l’avvertimento che tra la convinzione categorica in una ragione e la perdita della ragione il passo è breve.
Ripeto, sono divenuto “figlio della collera”, nel giorno in cui per la prima volta mi sono sentito di dover vomitare tutto il mio senso di schifo per la sorte della condizione umana. È uscito sulla roulette di Montecarlo un numero che non volevo e che mi ha fatto perdere quel poco da me raggranellato in una manciata di anni. Caso o necessità? Che crepino entrambi! Se non mi sono sparato è solo per orgoglio. La rabbia ha costruito la mia muraglia difensiva per combattere il dolore. Un nuovo ideale? Non lo so. So che certi ribelli non hanno la benché minima esigenza di battersi, sono di buona famiglia, possiedono beni economici, e in cuor loro se ne fregano dei diseredati della terra, ma, si sa, per la vanità tutto si fa. La mia vanità è il “vano” riempito dalla rabbia, che mi obbliga a svuotarmi.
Qualcuno afferma che bisogna stare attenti quando si esprime il proprio risentimento con le parole, che ci vuole un metodo compositivo… Ma io voglio che la collera mi strappi di mano la penna e scriva. Finora ha dovuto chinare la testa di fronte ai miei timori. Oggi, qui, adesso, voglio quella collera…
Eppure, sento nascere in me un altro lucido avviso: il senso dello scrupolo. Rivelo un dolore, il dolore più intimo che mi sia toccato subire, e tremo all’idea di doverlo strumentalizzare per conseguire un risultato in termini letterari. Lo sdegno andrà da sé, ma se lo tratto, lo addomestico, oppure lo amplifico, non ne ho già fatto un congegno, un ordigno cui si lavora in vista di un’esplosione e che, durante la preparazione delle varie componenti, diventa lui il centro della mia attenzione, dimenticando le premesse, ossia l’impulso dettatomi dallo stesso sdegno? Non voglio che la morte di mio padre diventi uno spettacolo per me e per gli altri, voglio descriverla non per abbellirla, ornarla, disporla affinché sia più godibile a chi la legge, eventualmente.
Da piccolo sedevo sulla poltrona insieme a babbo ad ascoltare musica, l’appuntamento maggiormente atteso era il melodramma. Mi entusiasmai con Pagliacci di Ruggero Leoncavallo. Il Prologo, cantato dal baritono Tonio, “in costume da Taddeo come nella commedia”, fu il brano destinato a perseguitarmi da allora in poi. È un manifesto del verismo nell’opera lirica:
“Si può?…(salutando) Signore! Signori!… Scusatemi / se da sol mi presento… – Io sono il Prologo. / Poiché in scena ancor le antiche maschere / mette l’autore, in parte ei vuol riprendere / le vecchie usanze, e a voi di nuovo inviami. / Ma non per dirvi come pria: «Le lacrime / che noi versiam son false! Degli spasimi / e de’ nostri martir non allarmatevi!» / No. L’autore ha cercato invece pingervi / uno squarcio di vita. Egli ha per massima / sol che l’artista è un uom e che per gli uomini / scrivere ei deve. – Ed al vero ispiravasi.”
Costretto a ispirarmi al vero, sotto il consiglio di Ruggero Leoncavallo, provo a dipingere questo squarcio di vita, e che mi assista la memoria dei momenti più terribili! Ancora oggi ascolto Pagliacci, da solo, senza babbo al mio fianco. Quel “vano” sulla poltrona non lo colmo se non con la tenerezza del ricordo.
Nei fatti…
L’aria è comune a tutti, eppure c’è chi respira ossigeno di prima qualità e chi no. A te, babbo, hanno dato l’ultima possibilità di assaporare questa primizia dell’atmosfera terrestre mentre mi stavi lasciando. Almeno le tue boccate estreme non erano contaminate dalla spazzatura aerea che gli uomini producono con il loro progresso.
“…e io mi sento ancora lì, mentre ti tengo la maschera dell’ossigeno per evitare che tu te la strappi con uno dei tuoi ultimi gesti. Sono riflessi, niente a che fare con i movimenti volontari. Stai morendo”.
All’estate del 2001 che se n’è andata, e che mi ha portato via mio padre, io non dirò mai addio. Il calendario a muro non venne più sfogliato, restò fermo al mese d’agosto, stessa sorte per il piccolo calendario sulla scrivania, con la data della scomparsa di babbo. Lo so, ho compiuto un’azione che non toglie né aggiunge nulla all’evento, ma per me era diventato essenziale denunciare la mia incompatibilità con la vita grazie a questo “blocco” simbolico, quell’incompatibilità denunciata prima in linea puramente teorica, adesso appresa praticamente. Ora so che non si può vivere con questa vita. Il resto è la tua dignità, che fa quindi sempre a meno della sostanza che dovrebbe nutrirla.
Io non ho più pessimismo, non me lo posso più permettere.
Se d’un tratto ti viene sottratta la persona che tu ritenevi impossibile che uscisse di scena, un uomo di forza e presenza intellettuale rare, il padre che solo ora senti di aver sempre desiderato, allora tu puoi abbracciare la futilità del concetto di pessimismo e riconoscerlo in tutta la sua scandalosa mancanza di senso.
Se rivedrò il sole gli sputerò in faccia. Gli dirò che splende su di un terreno ricoperto di ingiustizie e indecenze. Ma io non rivedrò più quel sole che mi rischiarava l’immagine carissima di mio padre. A che pro considerare questo sole svergognato che vedo oggi come lo stesso di ieri se non può più illuminare l’Uomo che ho perduto? Un altro sole per me, per favore. Pace agli astronomi.
E la vergogna sopravvivrà anche a me? La vergogna di non poter descrivere questa storia è tutto quanto mi resta. La vergogna dell’uomo che balbetta di fronte alla morte, sulla morte, e riproduce in fondo la sua stessa impotenza abituale, vivente, costitutiva.
Vergogna di non essere un eroe. Vergogna di non essere dio.
A questa estate che se ne è andata poi non ho più rivolto parole di fuoco: dopo l’incandescente dolore e lo stordimento di una temperatura altissima, ecco il gelo dell’inverno, l’asciutto sentimento della perdita, la brina dello smarrimento. Ho ripreso a far funzionare i calendari, tanto alla serpe viscida e velenosa del tempo non è essenziale niente. Mi contraddico, quindi provo a definire un po’ della mia esistenza.
Non vi riuscirò.
Mio padre sapeva che non sarebbe sopravvissuto al male, ma ha evitato di comunicare a mia madre e a me la sua consapevolezza, per farci stare tranquilli. Ma noi avevamo già saputo. Speravamo in un miracolo, ci dicevamo “no, non si può spegnere la vita di una persona come se si spegnesse la luce con l’interruttore, è una bestemmia che un uomo sano debba morire divorato da un’altra perfida forma di vita, dal cancro”.
E mi sono venute alla mente le discussioni di una mattina all’Università, durante un seminario dedicato a Claude Bernard. I filosofi che parlano di medicina, di fisiologia e si pavoneggiano per la loro ora in cattedra con espressioni che tradotte affermano: “il tumore, questo impazzimento di cellule che nascono per non piegarsi e lottano, e si difendono, lo si può esaminare sotto un diverso punto di vista, e allora, al di là dell’orrore, presenta un aspetto affascinante”. Affascinante? Rileggetevi Leopardi e rabbrividite di queste vostre frasi vanesie, al di là dell’orrore.
“Nasce l’uomo a fatica, / ed è rischio di morte il nascimento. / Prova pena e tormento / per prima cosa; / e in sul principio stesso / la madre e il genitore / il prende a consolar dell’esser nato. / Poi che crescendo viene, / l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre / con atti e con parole / studiasi fargli core, / e consolarlo dell’umano stato: / altro ufficio più grato / non si fa da parenti alla lor prole. / Ma perché dare al sole, / perché reggere in vita / chi poi di quella consolar convenga? / Se la vita è sventura / perché da noi si dura?” [1]
Non c’è fascino ad osservare il corpo di un malato di tumore che, dopo aver esalato l’ultimo respiro, diventa di un colore impronunciabile. Non c’è fascino nel sentire il fiato di chi sta per essere distrutto dalle metastasi. Mille e più episodi legati alla malattia di mio padre potrei raccontare, ma nemmeno uno mi dà la licenza d’essere distaccato a tal punto da battezzarlo con l’aggettivo “affascinante”.
Come sarebbe bello che questi cattedratici filosofastri venissero a fare le loro lezioni e a tenere i loro seminari in una camera di un reparto di oncologia, mentre qualcuno dei ricoverati sta schiattando, in questo modo vedrebbero, come ho visto io con questi miei occhi, schiattare quattro persone, con i familiari intorno, distrutti, umiliati senza la possibilità di avere nemmeno uno spazio per poter sfogare il loro dolore con dignità.
Venite accademici, venite e guardate che lazzaretti sono questi reparti di oncologia, come quello dove è morto mio padre. Venite e tacete! Ciò di cui non si può parlare si deve tacere.
Ripenso e ripenso a Lettera al padre di Kafka come richiamo non letterario ma umano. La paura, opprimente paura, inenarrabile paura di Franz nei confronti di Hermann, suo genitore. Questo documento mi ha fatto riesaminare tutti i dati sul rapporto con mio padre per spalancarmi una certezza: ho sempre avuto nostalgia di mio padre perché lui non mi bastava mai. Il mio primo ricordo infantile è la sua figura, lui che cammina e attraversa la piazza mentre io sono con mia nonna dalla parte opposta. La visione di una persona che mi attrae e vorrei per me, che cerco senza sosta e non posso raggiungere con le mie gambe. Mio padre, appunto. Ho dentro ancora quella sensazione, la spinta data da me all’immobile statua di mia nonna, per farmi avvicinare a lui, per agguantarlo. “Dai, andiamo verso il suo sorriso!”, volevano urlare le mie piccole braccia protese. Non furono comprese. Sono sempre qui a spiegarmi questa ignoranza di mia nonna. Mi sarei sbarazzato dei dubbi se non mi riguardassero, però non aver capito a mie spese…
La mia paura non è mai stata la paura che ho avuto di mio padre. Quella allontana, divide, impedisce. Ho detto “lui non mi bastava mai”. S’è guastata l’impressione confortante della speranza di poter avere un’altra volta un po’ di lui.
Affrontare l’argomento della morte, in particolare quella del proprio padre, non è scontato affatto, anzi. Non resta cioè che scontarlo. Porsi il problema stilistico può essere tutto o niente. Dobbiamo pagare il prezzo dell’uso scellerato che di questo argomento fecero e fanno i letterati. Il tema adesso si trova in condizioni pressoché insanabili. Inutile ricorrere ad esempi, citazioni, ecc.. Hanno scritto troppo e male, investendoci di un carico di lavoro pressoché disumano. E non sarò certo io a riparare il danno. Non c’è che dire, una gran bella consolazione.
Voglio parlare di babbo perché babbo amava che io mi esprimessi, mi sciogliessi, uscissi dal torpore del mio silenzio indolente e sconsolato. Ma non vorrei fargli un torto eguagliando le turpitudini fin qui pubblicate, o superandole in mediocrità. A che pro un’altra conferma di impotenza nel narrare? O forse siamo noi a pretendere che con una miscela di vocaboli e frasi si ricomponga magicamente l’avvenimento. Nessuno può tanto, neppure chi possiede la tecnica migliore. Forse.
No, non è scontato, ma lo si sconta con la giustificazione postuma. E poi vi si aggiungono degli elementi che non sono autentici, si arriva a mentire, mentire di ciò che ci ha fatto soffrire infinitamente. E io provo lo schifo dello stare in vita, inventariando e inventando.
«Resto, nonostante le miserie innumerevoli di questo secolo, un uomo del Novecento, un uomo cioè che ha progettato, realizzato in buona parte se stesso durante questa porzione del tempo cronologico.
Una nuova nostalgia mi si è acquisita in un secondo, dalle 23.59.59 del 31 dicembre 1999 alle 00.00.00 del 1 gennaio 2000!»
Sul mio diario qualcuno mi ha dettato queste frasi, istigandomi una professione di non fede per il nuovo secolo. Non so chi sia la persona nascosta dietro la suggestione. Sono troppo forti, troppo impressionanti le voci di dentro che un irraggiungibile fuori deposita nella nostra interiorità senza curarsi di spiegarci il perché. Ma ascoltarle quelle voci, dare ad esse una connotazione il più possibile realistica, che ci faccia riflettere e preparare le nostre lotte future. Bisognerebbe ascoltarle. Non siamo abituati a farlo. Il chiasso che facciamo ricopre tutto, ricopre la paura di ascoltare le premonizioni. Il chiasso è anche la risata dell’incredulo tremolante, che spera d’essersi immaginato un bastione contro tutto ciò che non sa dimostrare.
La forza sconosciuta mi ha condotto a scrivere, la mia volontà non sapeva ciò che voleva. Altre volte lo stesso brivido annunciava l’avvento di un richiamo terrificante. Le disgrazie nella mia vita io le ho sempre annusate in anticipo, senza una loro apparizione chiara. Sono una Cassandra analfabeta che davanti al libro del male venturo si ferma frustrata perché non sa leggerlo, pur avendo la certezza che lì dentro c’è il male descritto in tutte le sue pieghe.
Ora so che percepivo un motivo assennato per non lasciare il ’900: là, in quel deposito di anni, sarebbero rimaste le componenti più incantevoli della mia breve esistenza. Ho perduto quella gioventù cessando di essere figlio di un padre presente in carne e ossa. Il terzo millennio mi avrebbe fatto questo “regalo”. E me lo avrebbe fatto quasi subito.
Allo scoccare della mezzanotte del 31 dicembre 1999 io ero solo. Ho pianto nella desolazione del mio salotto. “Addioduemila” è la formula tragica di un incantesimo al contrario. Mi sono tenuto il Novecento, probabilmente mi ha vinto l’intuizione che il secolo nuovo non nasceva nel segno della generosità.
Il vecchio secolo aveva provato a spaventarmi, in extremis. Verso la metà dell’ottobre 1996 mio padre si ricoverò in una clinica per essere operato il giorno dopo d’appendicite. Quella sera stessa stavo guardando alla tv la cassetta di un episodio dei telefilm di fantascienza Spazio 1999: era la storia di un’astronauta considerato sofferente di turbe psichiche, tenuto sotto costante controllo medico dopo esser tornato da una missione in evidente stato di choc. L’astronauta raccontava d’aver visitato una nave spaziale abbandonata e d’essersi imbattuto al suo interno in un mostro, che catturava le sue prede ipnotizzandole e poi avvolgendole con tentacoli di una lunghezza inaudita. Purtroppo l’astronauta non era vittima di allucinazioni, ma riferiva un evento realmente accaduto a cui aveva presenziato, subendone le relative conseguenze per il suo equilibrio psichico. Adesso non sto a ripercorrere tutta la vicenda del telefilm, solo un particolare che mi colpì moltissimo: a un certo punto gli autori dell’episodio avevano inserito nella colonna sonora l’Adagio di Albinoni. All’improvviso, a udire quella musica di una malinconia infinita, ebbi una specie di percezione, agghiacciante, che mi mise in uno stato di profonda inquietudine. Sentii che l’operazione di mio padre sarebbe andata male. Veramente avevo preavvisato un forte richiamo, l’avvertimento di un pericolo di morte legato a quell’intervento chirurgico.
Il giorno seguente, verso le quattro del pomeriggio, mi recai nella clinica dov’era ricoverato mio padre per conoscere l’esito dell’intervento. Incontrai subito mia madre e mia sorella che stavano prendendo tutti gli effetti di mio padre per trasferirli in un’altra stanza, una singola. Lì per lì non capii cosa stava succedendo, mi sembrava di assistere a una scena assurda. Perché mio padre doveva cambiare di stanza? Perché doveva stare da solo? Mia madre e mia sorella erano molto depresse, mi svelarono che qualcosa era andato storto e che babbo necessitava di una stanza tutta per sé, in funzione delle cure post operatorie. Non era un’appendicite. Il chirurgo s’era trovato a dover cambiare radicalmente l’intervento: mio padre aveva un adenocarcinoma al colon, un tumore maligno dalle dimensioni di un arancio. Si poteva asportarlo. Lo asportarono infatti e tagliarono per precauzione circa trenta centimetri di colon. In fondo gli era andata bene a mio padre. Se non si fosse operato d’appendicite quel giorno il tumore sarebbe cresciuto e le cellule tumorali si sarebbero riprodotte altrove, formando la cosiddetta metastasi. Stavolta erano arrivati in tempo.
Continuamente mi sono riascoltato mentalmente il dialogo che ebbi con uno dei chirurghi dell’equipe che sottopose mio padre all’intervento. Insieme a noi, a seguire con attenzione il nostro dialogo, v’era anche una suora, l’infermiera capo del reparto. A pochissimi giorni dal maledetto evento adesso per me il problema era la comunicazione della cattiva notizia al diretto interessato, essendo stato mio padre tenuto ancora all’oscuro di tutto. Iniziai a chiedere al medico qualche suggerimento, ma intervenne risoluta la suora: «Ma no! Non gli va detto niente. È bene lasciarlo in pace, poverino».
Mi convinsi che dopo questa risposta era venuto il momento per l’altro interrogativo, il più logico, l’unico vero interrogativo: «Il tumore può ricomparire? E se sì, quando?»
Non attesi neppure due secondi per avere una replica, il medico mi fulminò con le sue sentenze.
«Il pericolo di una recidiva c’è, ed è anche elevato. Perlomeno dell’ordine del cinquanta per cento. Se si superano quattro, cinque anni dal primo episodio e il carcinoma non si ripresenta allora le speranze d’essere guariti del tutto sono notevoli».
Era già iniziato il conto alla rovescia.
Oltretutto il cambiamento di programma aveva obbligato il chirurgo a adattare in corso d’opera l’incisione dell’addome di mio padre, in modo da affrontare l’emergenza, ampliando di gran lunga la zona dell’intervento. La ferita, a forma di grande “v” tondeggiante e coricata su di un lato, fu il tormento di mio padre dopo l’operazione. Si infettò quasi subito e occorse più di un mese, tra medicazioni varie, per vederla rimarginare normalmente. Rimase una cicatrice vistosa che avrebbe dovuto testimoniare il pericolo scampato, uno sbrego piuttosto sfacciato che offese la vanità di babbo, seccato di doversi mostrare l’estate in spiaggia “segnato”.
Ho visto il lungo tramonto del Novecento come se stessi osservando, impotente, un uomo che viene inghiottito dalle sabbie mobili: guardavo insieme l’altro tramonto e non lo scorgevo con sufficiente chiarezza. La paura parla e ti tappa gli occhi, almeno quelli che servono per osservare bene cosa va accettato o respinto. Dovevo prepararmi al peggio, ero stato avvertito: l’idea della FINE che non consola, del termine che accende la miccia di un nuovo tremendo principio.
Ho parlato e ho scritto sulla morte, impiegando un po’ della mia “scienza”. Anche se avessi prosciugato tutto il sapere di cui dispongo, per dimostrare quanto ho capito del dilemma della morte, non sarei mai arrivato a indicare ciò che il lutto patito è stato capace di rivelarmi. E non credo questo dipenda da un mio limite. Non esiste un training specifico e universale che ti faccia arrivare perfettamente in forma davanti alla disgrazia.
Nel 1999, con un lento e regolare recupero, mi stavo lentamente dimenticando della minaccia di un ritorno della malattia di mio padre. Poi, l’epilogo del secolo, il tramonto del millennio… Il gennaio 2000 stava scadendo, e babbo accusò una febbre strana, febbre persistente che il nostro medico di base scambiò come effetto di un’influenza (mi piacerebbe tanto parlare di quel medico di base, che ci decidemmo a mollare, giustamente… mah, forse più in là). Anch’io, negli stessi identici giorni, avevo la temperatura alta con tanto di mal di gola. Questa sì che era influenza! Sorvoliamo sul fatto che per curarmi quel dottor “della sua sorte” mi somministrò un antibiotico rivelatosi poi… penicillina. Anche per lui il XX° secolo non era passato! Intanto a babbo la febbre non calava… L’8 febbraio ci decidemmo a chiamare il nostro vecchio medico condotto, da poco pensionato, con il quale avevamo avuto un rapporto di maggior confidenza e stima. A quest’ultimo bastò tastare il fegato a mio padre e sentire la storia di questo insolito decorso per capire che si trattava di febbre settica e non di influenza.
Analisi, ecografie, colonscopie. A tutta prima sembrava che un ascesso sotto il fegato fosse la causa originale di quella febbre e dei malesseri complessivi e sempre crescenti avvertiti da mio padre.
Il liquido ascessuale venne in piccola dose estratto, fu praticata cioè una biopsia.
Dal mio diario del 2000, 15 giugno
“Apparentemente una condizione invidiabile: senza famiglia a carico, senza un impiego che ti stressa, senza padroni, senza dèi né are da venerare… Apparentemente dicevo… In realtà non so approfittarne di questa ‘fortuna’, anzi, sto sempre più pensando a togliermi di mezzo, però è proprio la fissazione che m’è presa recentemente a farmi comprendere che la schiavitù sta in questa mia responsabilità umana: non distruggere dal dolore le persone care, i miei genitori, già di per sé compromessi da una salute che da ultimo li sta perseguitando.
Io una vita mia non ce l’ho, penso a mio padre con il problema degli esami, del tumore che ha avuto e potrebbe avere ancora; a mio madre con la sua depressione e la gamba dolorante per una frattura dovuta all’osteoporosi… A me non penso mai, io non ho più tempo per dedicare un minuto di sana preoccupazione a me. Io non esisto…”
Dal mio diario del 2000, 28 giugno
“Oggi mancavano dieci minuti circa alle 16.00, a Cisanello, la clinica ospedaliera… sono andato insieme ai miei per… purtroppo a babbo hanno riscontrato una presenza di cellule tumorali, le stesse che aveva avuto al colon nel 1996… Dopo un’ulteriore T.A.C. e una visita oncologica si vedrà quale strada prendere, se intervenire chirurgicamente o altro. Avrei preferito si trattasse solo dell’ascesso diagnosticato in un primo tempo… Evidentemente non bastava tutto quello ch’era avvenuto quattro anni fa. Mi pare tutto così incredibile, non mi sembra vero, eppure… Dicevo il 15 giugno scorso che a me non pensavo mai… beh, adesso è bene che pensi a mio padre, interamente, perché non lo voglio perdere, non lo voglio perdere, non lo voglio perdere!”
Il 28 giugno 2000 ci comunicarono il risultato dell’esame bioptico. Il fegato aveva una buona parte già invasa dal male. Alla domanda di mio padre “Siamo in tempo per intervenire?”, gli fu risposto “Certo!”. Però occorrevano altri accertamenti…
Immaginiamoci un po’ cosa significa ficcarsi nel tunnel dei tempi tecnici, che scorrono sconsideratamente a rilento, secondo la logica aberrante delle liste di attesa, e secondo le esigenze del personale ospedaliero nel periodo estivo. Le ferie, i palleggiamenti tra uno studio e l’altro… Ricordo una telefonata, una delle tante di mio padre, ad agosto, per apprendere quanto doveva aspettare, quando era in programma il prossimo esame e la relativa, ormai ineluttabile, operazione, e ricordo, per averlo ascoltato con il vivavoce, il tono stizzito del clinico, colui che lo avrebbe operato. “Lei non è entrato nell’ordine di idee che prima dell’intervento dovrà eseguire questi determinati accertamenti…”. Eh già, mio padre stava disturbando con le sue caparbie telefonate, non capiva che la sua smania di far presto cozzava contro le istanze “vacanziere” dei reparti. Mio padre, che da maggio aveva smesso di lavorare e mese per mese mandava un certificato alle Poste, in ferie c’era già. E che ferie!
Ferragosto era prossimo, l’ultima analisi aveva messo in chiaro che l’adenocarcinoma era tornato sul luogo del delitto, il colon, e da lì aveva infiltrato il fegato…
Ferragosto giunse e io cenai per l’ultima volta in un ristorante con mio padre. Un bel posto, ci dicemmo, ci torneremo, aggiungemmo.
In quel periodo alla tv avevo visto un programma insieme a mio padre, parlava della cura e della prevenzione dei tumori. Ospiti illustri in studio. Loro ce l’avevano fatta a sconfiggere il cancro. Un’artista famosa, descriveva com’era capitata accidentalmente nella clinica di un suo amico, ex compagno di scuola, divenuto primario oncologo (d’altronde il suo amico non poteva certo diventare netturbino!)… “Perché non ti fai un esamino di controllo? Vieni domani, cara”, le disse l’amico, e lei accettò di buon grado.
Le diagnosticarono la malattia infame. Sconforto, disperazione, terrore di perdere tutto.
Ma il primario oncologo fu dolce, comprensivo, soavemente si rivolse all’amica artista: “Che ne diresti di fare un piccolo intervento? Sai, dato che il male è in fase iniziale, sarebbe bene non concedergli tempo.” “E quando devo venire per l’intervento?” “Ti ricovero subito, cara, e domani sarai in sala operatoria”.
Applausi nello studio televisivo. “Avete visto che il tumore si può sconfiggere?” sentenziò gongolante il presentatore della trasmissione. Altre testimonianze, personaggi noti al pubblico, tutti che venivano allo scoperto per convincere gli italiani a fare i controlli specifici, ad abbattere i timori, a comprendere che la prevenzione è l’arma migliore per non morire. Loro ce l’avevano fatta a sconfiggere il cancro. Loro.
Mio padre attendeva la chiamata dall’Ospedale per il ricovero e relativa operazione.
Ha pazientato quasi tre mesi, ed è stato uno dei più fortunati, dimagriva a vista d’occhio, non riusciva più ad alimentarsi con appetito, perdeva la fiducia. Nel 1996 non sapeva nulla e non aveva avuto tempo per pensare che l’adenocarcinoma era andato ad “alloggiare” nel suo colon. Ora sapeva tutto e gli davano tutto il tempo per pensarci. Si era quasi rassegnato all’idea che la telefonata tanto agognata sarebbe giunta quando ormai…
Giunse la mattina del 15 settembre 2000. Andammo insieme ad acquistare un mobile per il computer. Prima di uscire mio padre mormorò a mia madre: «Io vado con Marco, è inutile che stia qui ad aspettare la telefonata dall’ospedale. Tanto quei figli di puttana non chiameranno!»
Al ritorno, con il mobile acquistato sistemato sul portapacchi dell’auto, salii i tre piani per giungere al mio appartamento e trovai mia madre raggiante per le scale: avevano telefonato! Scesi di volata e volli comunicare la bella notizia a mio padre.
«Che strano. Ero lì e ci stavo pensando…», mi rispose, ma non finì la frase.
Vidi babbo sciogliersi in un pianto liberatorio.
Vidi la sua disperazione estrema, la sua fatica di giorni e giorni segnati dall’esaurimento di energie, grinta, lotta per la sopravvivenza.
Per la prima volta il figlio accolse sul suo petto il volto rigato dalle lacrime del padre, gemente come una creatura indifesa che trema di fronte al pericolo.
E il padre chiese scusa al figlio per averlo turbato con i suoi singhiozzi…
Io so che il suo pudore lo faceva soffrire terribilmente in questa occasione.
Io so della sua indignazione contro il cielo.
Io so delle sue preghiere, e credo di sapere anche della sua richiesta di perdono, per peccati che non aveva mai commesso.
Domenica 17 settembre 2000: i miei occhi hanno visto mio padre di nuovo vispo, di buon umore, contento di stare finalmente nel luogo dove i suoi guai avrebbero potuto essere risolti…
L’ultimo giorno in cui mi è apparsa la figura che conoscevo, dopo di allora mi è stato concesso solo di aggrapparmi all’immagine tramontata di una persona non più presente, una persona che aveva cessato di esistere, una persona che fino a qualche mese prima era in grado di progettare un futuro.
Verso sera, al termine della visita precedente l’intervento chirurgico, babbo mi chiese di non dire a nessuno che la mattina seguente, alle 8.00, sarebbe stato il primo a entrare in sala operatoria, le sue parole furono: “se no mamma è capace di venire qua subito e di strapazzarsi restando ad aspettare per ore e ore”. Meglio recarsi all’Ospedale dopo pranzo, a intervento concluso…
Tutta la mia famiglia era insieme a me quella domenica, tutti rilassati e sicuri che l’equipe medica avrebbe fatto un ottimo lavoro, rimovendo la robaccia maledetta dal colon e dal fegato.
Babbo ingurgitava litri di soluzione per liberare l’intestino e rendersi pronto in vista dell’operazione. Stavolta non avrebbero avuto sorprese nel modificare, eventualmente all’improvviso, il tipo di intervento, soprattutto non ci sarebbero state ferite infette procurate dai possibili cambiamenti richiesti.
Prima di lasciarci, babbo mi rinnovò l’invito a non rivelare l’orario della sua operazione, poi ci congedò in pratica scappando per l’effetto lassativo del liquido ingerito.
“…e accennasti una corsetta comica da film muto, per farci divertire mentre ci allontanavamo. Scanzonato, come sei sempre stato, affrontavi una giornata ingenerosa che avrebbe deciso la tua fine”.
Il resoconto della giornata “per eccellenza” sarà steso tutto al verbo presente, perché non venga la tentazione di farlo scadere, di perderlo insieme ad altri racconti di un passato inaccessibile, non più frequentabile. Cerco di disporlo nell’attualità, anche se lo si conosce già trascorso, incastrato nel tempo.
Dunque, eccomi davanti alla porta del reparto di Chirurgia, con mia madre, mia zia e mio zio, seduto su una scomodissima poltroncina. I minuti scivolano e noi non abbiamo idea se essere arrivati verso le tredici stia a significare che l’operazione s’è conclusa, o sta per concludersi, oppure è tutt’ora in corso. Le dicerie sulla lunghezza dell’intervento mi circolano nella mente, le sento anche dai miei compagni d’attesa, e guardo continuamente la porta dove si presume possa uscire un messaggero che ci comunichi qualcosa.
Poco dopo le quattordici veniamo chiamati e avvisati che il Prof. *** ci aspetta al primo piano per riferirci l’esito finale… Entriamo nella stanza indicataci e siamo ricevuti da una persona dallo sguardo fermo, professionalmente impassibile. Non appena ci invita ad accomodarci sento dal suo alito che ha da poco bevuto un caffè. È un profumo che adoro nella mia bocca, ma che mi nausea in questo caso. Mi suona sinistro. Adesso la sentenza, la voce che innescherà la nostra allegria o la nostra afflizione, comincia il suo iter sonoro:
« È stata un’operazione molto lunga e faticosa… palliativa, purtroppo. Siamo riusciti a prevenire un blocco intestinale (e ci saremmo giunti fra non molto!)… »
L’orazione medica più odiosa della mia vita è ormai connotata dall’atroce incipit, dall’aggettivo “palliativa”… Francamente di lì in poi non ascolto bene le disquisizioni cliniche. La catastrofe è già stata apparecchiata. La metastasi ha raggiunto livelli clamorosi: dal colon al fegato, dal fegato all’addome; parte dello stomaco e del diaframma sono intaccati. Troppo esteso il male. Impossibile intervenire per racconciare alcunché. L’operazione, per quanto era nelle sue ridotte capacità, ha limitato le conseguenze negative immediate, il blocco intestinale appunto. L’illustre Prof. *** vuole illustrarci cosa è avvenuto durante le cinque ore abbondanti che mio padre ha passato sotto i ferri, si mette a schizzare sopra un foglio le fasi del suo atto chirurgico con tanto di anatomia disegnata… La sua penna traccia cinicamente gli scarabocchi che descrivono un dramma, è agile, senza pudore, forse sarà una normale prassi (no, per me è un’atrocità inutile, come se il boia fosse chiamato a descrivere ai parenti della vittima in che modo gli è stata tagliata la testa). Non so nulla di “anastomosi”, per la prima volta mi tocca imparare questo nuovo termine; non so nulla di un evento intollerabile come quello accaduto; non so nulla di come dovrò agire dopo…
Mia madre subisce la sua tragedia, la fine della storia bella che la illuse, che ci illuse, chi le fiata addosso non è nato per consolarla, riferisce una pessima realtà e basta.
Mamma abbassa lo sguardo, comincia il suo pianto sommesso e sparisce con un bisbiglio «Lo sapevo!». Si convince che ancora una volta la vita puttana e mediocre l’ha colpita nel suo più profondo essere. Questa nuova prova non ha un briciolo di sentimento. Tutto accade mentre la vertigine trionfa arrogante.
Mia zia resta annichilita, si volta per cercare un volto, un fantasma che la salvi dal pericolo di perdere suo fratello. Non trova nessuno, nemmeno il marito che le sta accanto appartiene al suo presente. Chi non c’è su quella sedia vuota mette spavento.
Mio zio ha un senso pratico, virilmente pratico, per valutare le cose. Chiede al Prof. *** ciò che tutti evitano di chiedere (quanto resta in termini concreti da vivere a mio padre?). Per un attimo strozzerei mio zio, il mio smarrimento non approva una domanda delicata e indelicata insieme, la domanda capitale. Mi rendo conto che non mi interessa sapere altro… però non voglio saperlo.
La domanda è stata fatta, non rimane che aggiungere l’abisso all’abisso già invocato.
Tento di ricostruire il disagio di chi deve rispondere.
« … è un discorso antipatico da fare… dare una previsione in questi casi…
Mah, secondo me, può sopravvivere ancora sei, otto mesi… con la chemioterapia un po’ di più… ma non molto…
Mi dispiace, la situazione era troppo compromessa, il tumore era in stato troppo avanzato. Semmai ci risentiremo per accordarci sui cicli di chemioterapia, finita ovviamente la degenza ospedaliera… »
Dopo il diluvio doveva esserci un silenzio dirompente: la calma che segue la rovina attraversa tutti i sensi e li violenta. Non si può riparare uno stupro subito. Non si riceve una lezione di vita offesa. È soltanto un atto di forza che si esercita e non lascia alcuna esperienza da inoltrare.
Sto parlando di quanto mi ha trafitto, ma non so spiegarlo.
Quello che è successo non succede in un tempo solo, accade sempre, si rinnova mutando d’abito e si rimette in scena ininterrottamente. Bisogna avere uno stomaco adatto per digerirlo…
Allora sto parlando della mia dispepsia…
Dal 18 settembre 2000 in poi ho vissuto in apnea. Una mattina mi alzavo convinto che era stata tutta una farsa, che un male bastardo s’era preso trent’anni di vita, della mia vita con mio padre, e l’aveva buttata nella pattumiera, per noia. Stronzo!
Un’altra mattina mi veniva in mente che… No, siamo seri, non mi veniva in mente nulla, stavo solo delirando una possibilità: il miracolo. Quanto mi sarebbe piaciuto far capolino in una di quelle trasmissioni tv, le solite che si occupano di umanità consunta, triturata (ah, come avevi ragione Carmelo Bene a sostenere che “i consigli per gli acquisti” sono per gli individui “acquistati”, che si consumano e non consumano un cazzo!)… Cosa avrei detto, intervistato dalla conduttrice o dal conduttore (sempre con quell’aria pietosa che si costruisce in camerino con il fondotinta), o cosa avrei voluto che mio padre dicesse? Vediamo un po’. Beh, è una cretinata, però nella mia folle finzione c’era babbo che narrava tutte le sue peripezie con la malattia, con la Sanità di Stato (ciò che è Stato è stato, quindi non è stato mai!, ancora Carmelo), eccetera. Poi, al termine di questa bella esposizione, ecco il clou tanto atteso dal pubblico televisivo: l’invocazione al santo e il miracolo. “Signore e signori la scienza non è stata in grado di spiegare questa improvvisa guarigione, anche il Professor ***, qui presente in studio, ha visionato tutti gli esami, le diagnosi fatte da autorevoli colleghi, e non sa come sia
potuto accadere un fatto così incredibile. La metastasi è scomparsa in un batter d’occhio!”. Plaudite cives! Acquistati nuovi “consumati”, nuovi disperati che si mettono a pregare a cottimo per ottenere un miracolo e per far fare una puntata in più alla tv sul santo del giorno. Gli esperti in materia miracolistica affermano che bisogna avere una fede sincera in questi casi, non aspettarsi niente, non mettersi in un atteggiamento di sfida o di pretesa nei confronti di Dio o di altri, e che poi sarà chi di dovere a scegliere il soggetto da beneficiare. La Provvidenza. Anche qui ci sono le lista d’attesa… Babbo, è il caso di dirlo, non avevi proprio santi in paradiso! E poi, il sottoscritto non ha mai avuto una fama di credente, forse le preghiere da me recitate non sarebbero state prese in considerazione per via del mio interesse filosofico nei riguardi dei “maestri del dubbio”, che sarebbero Freud, Marx e Nietzsche, almeno a detta del Santo Padre.
Il 22 settembre 2000 mia madre e io avemmo un colloquio con il primario della clinica che ospitava babbo. Ricevemmo l’ultima mazzata: a differenza di quanto affermato dal Prof. ***, che aveva eseguito l’intervento chirurgico, il primario si disse contrario alla chemioterapia. Per lui l’unico obbiettivo, adesso, era offrire a mio padre la migliore sopravvivenza possibile. Ci parlò di quello che avrebbe dovuto essere il nostro atteggiamento, la nostra disperazione contenuta, il programma per affrontare con coraggio l’approssimarsi del giorno fatale.
«Quando vedete che ha appetito siate contenti, ditegli “Ma che bel piatto hai mangiato!”. Non drammatizzate i momenti in cui lui non ce la farà a mandar giù nemmeno un boccone.»
Nessuno volle imporci una decisione. La scelta cadde sulla chemioterapia.
Il 7 ottobre 2000, un sabato pomeriggio, mio padre tornò a casa dopo ventidue giorni di degenza. La sua poltrona in sala era pronta. Io avevo sistemato altre cose, ripitturato le pareti della cucina e del bagno in una giornata che mi ritagliai allo scopo di non pensare a nulla e lavorare con il pennello e la vernice.
A novembre cominciò la chemioterapia per acquistare quel “un po’ di più… ma non molto…”. Furono fissati i cicli delle cure, effettuati sempre con la formula del day hospital, e babbo nei sette mesi che seguirono diventò un pendolare sotto la vigilanza stretta della morte, il suo nuovo datore di lavoro… non poté più svolgere il suo lavoro.
Nel marzo 2001 dovette andare in pensione. Per lui questo era il segnale della fine imminente.
19 aprile 2001, da poco passata la Pasqua, il pomeriggio mio padre si sentì molto male mentre riposava sul letto: una febbre improvvisa, alta, gli fece avere addirittura delle convulsioni, ma lui era cosciente, chiedeva le coperte per non provare più freddo, e io cercavo di calmarlo. Telefonai al medico, quello che diagnosticò un’influenza… Non venne a casa, mi suggerì soltanto di somministrare a babbo un farmaco che avevamo già. E poi aggiunse che desiderava vedermi per parlare. Era stato all’ospedale, al reparto oncologico, chiamato per ricevere delle comunicazioni sullo stato generale della malattia di mio padre, il suo “assistito”. Dal tono della voce captai un imbarazzo che non mi piacque. Se avesse potuto se lo sarebbe risparmiato questo incontro con me. Con mia madre non se la sentiva di aprir bocca. Aveva paura di turbarla. Mi recai io da lui. E fu brusco, forse per vincere il suo impaccio. Se la sbrigò con poche frasi, taglienti come lame di macellaio: la chemioterapia aveva appena rallentato la corsa del tumore. Un paragone automobilistico che spiegava la velocità appena ridotta di questo bolide destinato a schiantarsi comunque.
Concluso il suo gravoso compitino, il medico mi salutò affermando che mia madre e io dovevamo avere molta serenità… “Quella non la vendono!”, gli risposi piano.
Purtroppo, in un’altra occasione, non potei fare a meno di rivolgermi a quella specie di medico. Un farmaco che mio padre solitamente riceveva in ospedale venne a mancare e per averlo mi presentai in farmacia con la prescrizione fatta all’interno del reparto di oncologia. Mi fecero tante storie, dato che il prodotto conteneva una nota e, secondo questa nota, quella prescrizione non era sufficiente. Fui costretto a rivedere il medico di base per la bisogna… Di nuovo storie e di nuovo una frase ingloriosa che incassai.
«Io questo farmaco, per legge, non glielo posso prescrivere… E poi, parliamoci chiaramente, quanto può campare ancora suo padre? Settimane, forse mesi, ma anni no…»
Un prodotto, che al reparto di oncologia era considerato importante per mio padre, mi veniva negato, con un pretesto di economia sanitaria, o di opportunità, visto che non avrebbe “guarito” una malattia inguaribile. A me risulta che uno dei principi della deontologia medica è la cura fino in articulo mortis del paziente…
Cambiai medico di base, dopo questo ennesimo intollerabile episodio. Il mio rimpianto è di aver trovato nel nuovo medico una persona che avrebbe dovuto esserci prima, data la sua professionalità, la sua premura, la sua onestà.
Eravamo agli sgoccioli. Il 29 giugno 2001 mio padre si ricoverò per essere seguito direttamente dal reparto di oncologia. Non era più in grado di spostarsi, la sua debolezza lo stava sfinendo. Ci rimase fino al 27 luglio. Quando tornò a casa le sue condizioni non erano migliori, anzi. E come potevano? Babbo aveva visto schiattare troppe persone nella sua camera d’ospedale. Anch’io feci quell’esperienza.
Il pomeriggio del 7 luglio, un sabato. Mi toccò assistere al decesso di un giovane uomo di quarant’anni, alla scena straziante del dolore dei familiari.
Non saprei spiegare cosa significava per me assistere a un incubo da sveglio, il mio stato d’animo davanti alla morte di un individuo, davanti alla vita che passava altrove, con le immagini del Tour de France trasmesse alla tv nella sala d’attesa del reparto… Stava vincendo Lance Armstrong, un ciclista che aveva sconfitto il cancro, nel medesimo istante in cui un’altra persona perdeva la sua gara, per sempre.
E mio padre, piangendo, mi pregava di andare via.
«Marco, non stare qui! Vai fuori. Lo vedi cosa succede?»
Per me, che non avevo mai visto morire qualcuno, che mi ero sempre rifiutato di vedere una persona morta, il pomeriggio del 7 luglio 2001 rappresentò il triste superamento di una prova. Vicino a mio padre vinsi la mia necrofobia.
Babbo rimase ancora venti giorni in quel lazzaretto, altri morti, solito implacabile rito: prima di trasportare il corpo del defunto all’obitorio, il letto ancora “occupato” veniva occultato alla vista dei presenti con un paravento. Se qualcuno crepava un po’ prima delle 18, i ricoverati rischiavano di consumare il pasto serale accanto al cadavere. Una cena gustosa, l’appetito sollecitato da “sora nostra morte corporale”… Mossi a pietà, gli infermieri del reparto talvolta sceglievano di trasferire i degenti nella stanza accanto, per farli mangiare nella requie… semieterna.
Parlammo, mia madre e io, con un medico chiedendo di portare a casa mio padre. Le aspettative di vita si riducevano sempre più, specie se minate psicologicamente e quotidianamente dalla strage del cancro.
«Purtroppo, chi si ricovera qui può assistere alla morte di un suo vicino di letto, se non muore egli stesso. Se volete portarlo a casa io vi metto in contatto con un’associazione che si occupa dell’assistenza domestica dei malati terminali.»
Venerdì 27 luglio 2001. Babbo di nuovo con noi. Non mangiava quasi più niente. Pochi passi lo stancavano. Le sue ultime preoccupazioni furono per me, per la mia attività letteraria. Mi chiese di darmi da fare, di sentire quanto occorreva per pubblicare Bela Lugosi è morto!, il mio primo romanzo.
Sabato 4 agosto 2001. Babbo non si svegliava, continuava a dormire. Per pochi minuti, tramortito, sembrò riprendersi. Erano le undici passate del mattino. Insieme a mia madre lo abbiamo accompagnato nel bagno per le sue funzioni fisiologiche. Adesso riportarlo a letto era diventata un’impresa. Non stava in piedi. Io lo misi sulla sedia del mio studio, questa qua su cui sono seduto ora. Le rotelle mi avrebbero aiutato a farlo tornare in camera sua…
Per tutta la giornata proseguì il suo sonno.
Quella domenica mattina è arrivata, unica data di un giorno perenne…
5 agosto 2001:
“Ieri mattina abbiamo atteso il tuo risveglio. Ho provato a chiamarti. Anche mia madre ha provato a chiamarti, ma secondo lei eri ancora sotto l’effetto di un sonnifero che avevi preso per vincere l’insonnia. Tutto il giorno, senza destarti…
Il tuo dormire infinito è cominciato in questo modo.
Stamani abbiamo chiamato la guardia medica. La tua pressione massima è a sessanta. Perdonaci, ma dobbiamo ricoverarti.
Sei agitato e ti scuoti ogni tanto.
Dentro l’ambulanza che ci porta all’ospedale piangiamo, mia madre e io. Stai abbandonando per sempre casa nostra.
La prima visita di controllo (c’è ancora qualcosa da controllare?) si svolge al Pronto Soccorso. Mia sorella ci raggiunge. Entra nella stanza dove ti hanno messo. Si volta verso di me con lo sguardo stravolto. Mi dice ‘Io non credevo che fosse a questo punto!’. E fugge disperata, rincorsa da mio cognato.
Babbo, ci ritroviamo nel reparto di oncologia, in quella medesima camera che per ventinove giorni ti ha ospitato. Ti adagiano nel letto dove il 7 luglio scorso morì il giovane uomo.
Mi rivolgo al medico di turno. È una persona affabile, schietta, ma delicata. Mi dice che sei entrato nel tuo stato di pre-agonia. Non si sa quando avverrà il distacco.
È venuta anche tua sorella con il marito. Il pomeriggio sarà la volta di tuo fratello.
Abbiamo deciso. Con mamma farò la notte vicino a te. No, non ti preoccupare, un panino mi basta per cena. E poi non ho granché fame.
Cala la sera. Intorno a te ci siamo noi due e tua sorella, che aspetta un poco prima di andarsene. Si inganna il tempo parlando del più e del meno.
Alle 21.15 il tuo cuore cessa di battere.
Ti vedo esalare l’ultimo respiro.
Non hai voluto farci passare la notte in ospedale. Grazie, babbo. Sei sempre stato premuroso.”
Ho sopravvalutato la mia funzione e l’arte che pensavo di possedere: l’una non mi libera dall’angoscia, non mi rivela niente, non funge da terapia; l’altra mi ha confermato l’impotenza della mia scrittura. Si rinnova la vergogna. E non solo quella.
La mia vergogna desiderava tanto potersene stare da sola, e invece s’è pure trovata in compagnia della vergogna degli altri che non provano vergogna. E la mia collera non avrà mai fine.
Babbo, le estati che verranno ti vedranno nelle foto che mia madre ha sparso per casa.
Non sono riuscito nemmeno a rifugiarmi nella cronaca del tuo dramma.
Babbo, torna da me in sogno, prova a regalarmi l’abbraccio che mi manca.
E poi, come diceva un film, “ho portato una persona all’Ospedale, e cosa mi hanno restituito? una lapide da visitare la domenica”…
[1] Giacomo Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, vv. 40-56