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“Adesso vi facciamo vedere noi chi sono i Napoletani”, la storia che impazza sui social

Creato il 19 gennaio 2014 da Vesuviolive

napoli 1943

Sta facendo il giro del web, attraversando diversi social networks, la foto che ritrae un momento delle 4 giornate di Napoli. Sono passati ormai più di 70 anni ma il ricordo di quegli eroici momenti è ancora vivido negli anziati ed anche nei giovani, portatori della memoria degli avi.

La storia delle 4 giornate di Napoli. “ADESSO VI FACCIAMO VEDERE NOI CHI SONO I NAPOLETANI”

Il 27 Settembre 1943 iniziavano le 4 giornate di Napoli. Un episodio eroico, unico nella storia italiana, che è stato tramandato con il nome di “quattro giornate di Napoli”: infatti per quattro giorni, dal 27 al 30 settembre 1943, durante la Seconda Guerra Mondiale, i Napoletani insorsero contro i tedeschi e riuscirono da soli a liberare la loro città dall’occupazione nazista.

Da soli, senza esercito. Da soli, combattendo per le strade non soltanto con armi, trovate con espedienti, ma anche con mobili, materassi, vasche da bagno che venivano gettati dai balconi e dalle finestre per sbarrare la strada alle truppe tedesche. Da soli, uomini, donne, bambini, studenti, negozianti, tassisti.

Le quattro giornate valsero alla città di Napoli il conferimento della medaglia d’oro al valore militare.
Una medaglia assegnata a tutti i protagonisti e alle loro storie.

E tra le storie c’è quella di un piccolo eroe divenuto il simbolo dell’insurrezione: Gennaro Capuozzo. Gennarino non aveva neppure 12 anni quando si unì a quell’esercito improvvisato e le sue azioni eroiche in quei quattro giorni colpirono il cuore dei napoletani convincendoli a reagire e a ribellarsi all’oppressione dei soldati nazisti, anche quelli che avevano preferito restare chiusi nelle case. Gennarino Capuozzo era uno scugnizzo come tanti ragazzini di Napoli che la fame e la guerra avevano reso sfrontato e ribelle, così come lo sono ancora oggi tanti ragazzini di Napoli che sin da bambini devono confrontarsi con la realtà della città. Gennarino era un bel ragazzino, con i capelli nero pece e gli occhi vivaci. Era nato nel 1932 in una casa umida e buia dei vicoli del centro storico e imparò presto a vivere più per strada che nei pochi metri quadrati che divideva con i genitori e i 3 fratelli. Sua madre si chiamava Concetta e dopo di lui aveva infatti messo al mondo altri 3 figli. Quando suo padre, nel 1941, partì per combattere in una guerra che mai fu dei napoletani, si trovò improvvisamente a fare il capofamiglia.

Gennarino era poco più di un bambino, ma allora tra i vicoli di Napoli si cresceva in fretta: ogni mattina usciva di casa di buon’ora e andava a lavorare in una bottega come apprendista commesso: “Mammà, nun te preoccupà. Ormai so’ grande, so’ ij che ve facc campà”, diceva con l’aria da uomo vissuto a sua madre. Guadagnava pochi centesimi, ma bisognava accontentarsi: quelli erano giorni terribili per Napoli. La città da giorni subiva i bombardamenti delle truppe angloamericane. Le vittime furono moltissime: si parla di oltre 20.000 morti sotto i bombardamenti degli angloameriacani!

Quando, l’8 settembre, fu improvvisamente firmato l’armistizio da parte del maresciallo Pietro Badoglio, le forze armate italiane si trovarono allo sbando, a causa di mancanza di ordini precisi dei comandanti militari. L’armistizio gettò nella confusione più totale anche Napoli: i tedeschi, che prima erano alleati, divennero nemici della popolazione e il 12 settembre i nazisti occuparono la città e dichiararono lo stato d’assedio. Per vendicarsi dell’armistizio, che consideravano un tradimento italiano, i tedeschi misero in atto tremende ritorsioni, come lo sgombero forzato di tutte le abitazioni sulla costa fino a 300 m dal mare e l’ordine di deportazione nei campi di lavoro tedeschi di tutti i maschi fra i 18 e 33 anni.

A quel punto, i napoletani capirono che era arrivato il momento di reagire. In particolare, furono le donne per prime a opporsi e a impedire che i loro uomini fossero deportati in Germania. Gli scontri e gli agguati alle truppe tedesche ebbero come risultato una ritorsione durissima. Il colonnello Hans Scholl ordinò il coprifuoco e dichiarò lo stato d’assedio con l’ordine di uccidere tutti coloro che si fossero resi responsabili di azioni ostili alle truppe tedesche: “per ogni tedesco morto saranno uccisi cento napoletani”, proclamò.

Le strade furono bloccate e gli uomini che per disgrazia si trovavano nelle vie della città furono caricati con la forza sui camion e chiusi nello stadio in attesa di essere deportati. Le case e i negozi furono saccheggiati e gli uomini e le donne che si opponevano furono fucilati sul posto. Con il passare dei giorni, a Napoli la popolazione cominciò ad assumere atteggiamenti ostili. Si intesificarono gli episodi di intolleranza e le manifestazioni studentesche. Il 27 settembre, però, le donne e gli uomini di Napoli capirono che dovevano reagire. Quel giorno, accadde un episodio che accese definitivamente gli animi dei napoletani: alcuni marinai, tra cui uno molto stimato dalla popolazione, vennero uccisi a bruciapelo, davanti a numerosi cittadini, mentre bevevano a una fontanella. La notizia di quel brutale assassinio fece il giro della città. La gente iniziò ad assieparsi armata per le strade, a bruciare le camionette nemiche, a creare barricate per impedire il passaggio delle truppe tedesche. Gli abitanti del Vomero riuscirono a impadronirsi di armi e munizioni depositate in un arsenale. In un momento di confusione, i carcerati scapparono dalle prigioni e si unirono ai rivoltosi e ai pochi soldati italiani rimasti allo sbando. Cominciarono così le Quattro giornate di Napoli!

Era il 28 settembre quando Gennarino Capuozzo, come ogni mattina, uscì di casa per andare a lavoro. Fuori del vicolo sentì gli spari di una pistola, si girò e vide i corpi di una giovane donna, un uomo e un bambino davanti all’ingresso di un panificio e, poco più in là, una camionetta con alcuni soldati tedeschi che si allontanava. Proprio allora vide un gruppo di ragazzi più grandi di lui: erano scappati dal carcere minorile e avevano deciso di combattere i tedeschi. Senza pensarci su, Gennarino tornò a casa, prese una borrraccia d’acqua e una pagnotta, diede un bacio a sua madre e le disse: “Mammà , nun mi aspettà, tornerò quann Napl sarà libera”. Sua madre non fece nemmeno in tempo a fargli le solite raccomandazioni che Gennarino era già sparito nei vicoli bui. Dietro di lui si formò un gruppo di rivoltosi, quasi tutti ragazzini. Si unirono agli adulti. Andarono subito ad aiutare gli insorti del “Frullone“: “Currete, currete guagliò”, diceva Gennarino mentre con gli altri compagni trasportava per i rivoltosi le armi, rubate ai tedeschi caduti, facendo la spola tra le barricate e i depositi di munizioni delle caserme di via Foria e di via San Giovanni a Carbonara.

La notizia che un gruppo di ragazzini stava mettendo a dura prova le truppe naziste si diffuse ben presto nella città. I giornalisti cominciarono a parlare di Gennarino e ci fu qualche fotografo che riuscì a ritrarlo mentre faceva la sua guerra. I napoletani che imbracciavano il fucile divennero in poche ore sempre più numerosi. Nel quartiere Materdei, una pattuglia tedesca fu tenuta per ore sotto assedio.

Al terzo giorno di feroci scontri giunse la voce che a Mugnano erano state fucilate 10 persone, fra cui tre donne e tre bambini. Gennarino Capuozzo con i suoi compagni decise di vendicare quei martiri e con il suo gruppo si appostò dietro alcuni blocchi di cemento sulla strada tra Frullone e Marianella e attese che il camion con i tedeschi fosse vicino. Appena l’automezzo con i tedeschi fu a portata di tiro, sventagliarono le armi di cui si erano impossessati per le strade: spararono con le mitragliatrici e lanciarono bombe a mano. Il camion tedesco provò a togliersi dalla strada, ma Gennarino riuscì ad avvicinarsi e a gettare una bomba a mano contro il mezzo militare. ”Ora scendete”, intimò Gennarino puntando la sua mitraglietta. Dal camion scesero con le braccia alzate tre soldati; il comandante che poco prima aveva ordinato la strage, l’autista e il mitragliere. I tedeschi furono portati come prigionieri all’accampamento degli insorti e Gennarino fu trattato da eroe.

Quell’impresa galvanizzò a tal punto Gennarino decise di non fermarsi. andò in via Santa Teresa dove decine di napoletani avevano alzate le barricate, con i mobili che la popolazione aveva buttato giù da finestre e balconi, per respingere i tedeschi. Prese il mitragliere di un soldato morto, si riempì le tasche con le bombe a mano e corse impavido verso un carro armato tedesco . “Adesso vi facciamo vedere noi chi sono i napoletani“, urlò. “Vedrete chi è Gennarino Capuozzo”. Ma mentre stava togliendo dalla bomba la sicura, una granata del nemico lo centrò in pieno.

I napoletani che stavano combattendo a qualche metro di distanza lo videro sparire tra la polvere dell’esplosione, non lo sentirono nemmeno gridare, corsero da lui sperando di poterlo aiutare, ma era tardi. Il suo corpo giaceva immobile, il volto sfigurato da quello scoppio, la bomba ancora stretta in pugno. Fu l’ultimo atto di eroismo di quei quattro giorni che cambiarono il volto della Napoli in guerra. Era il 29 settembre. Quella sera stessa, i tedeschi trattarono la resa con gli insorti: ottennero di uscire indenni da Napoli in cambio del rilascio degli ostaggi ancora prigionieri al campo sportivo. Il giorno dopo, il 30 settembre, le truppe tedesche lasciarono la città. I napoletani avevano vinto e il corpo di Gennarino Capuozzo fu venerato come si venerano i martiri di guerra.

A Concetta Capuozzo, la mamma di Gennarino, fu assegnata una medaglia d’oro al valor militare alle memoria di quel piccolo, grande eroe: “Prodigioso ragazzo che fu mirabile esempio di precoce ardimento e sublime eroismo”, come era scritto nella motivazione del riconoscimento. E un’altra fu attribuita a tutta la città di Napoli perché “col suo glorioso esempio additava a tutti gli italiani la via verso la libertà, la giustizia, la salvezza della Patria”.

Finiti i bombardamenti, le granate, i morti e il terrore, persino il Vesuvio, dopo una tremenda eruzione coincisa proprio con le quattro giornate, smise di fumare. “S’è levato ‘o cappiell”, dissero i napoletani, interpretandolo come segno di saluto alla rinascita che stava per cominciare.

Testo dal blog Ossimoramente


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