Ultimamente l’argomento sta facendo molto discutere, anche troppo. Pare che il problema fondamentale del nostro paese alla deriva economica sia l’adozione per le coppie gay e, come naturale conseguenza, il matrimonio tra omosessuali.
Per noi gente avvezza ad affrontare qualsiasi problema sotto l’occhio lucido ed asettico del diritto, tutto ciò fa un po’ sorridere, come l’exploit di commenti fatti con la pancia, quando qualche settimana fa il Tribunale dei minorenni di Roma ha, si leggeva a caratteri cubitali sulle più importanti testate giornalistiche, permesso l’adozione ad una coppia gay, primo caso in Italia.
Cerchiamo di fare chiarezza, per far comprendere a chi si fosse imbattuto, per sua sfortuna, in queste pigre pagine, che le cose non stanno così, non c’è da allarmarsi, ammesso che sia motivo di allarme sociale, e non c’è da gridare allo scandalo. Anzi quel Tribunale non poteva non arrivare a quella conclusione. Ma vediamo di capire il perché.
Partiamo dal pregiudizio, che sembra essere la linfa di tutti i commenti che abbiamo letto un po’ dappertutto. Il pregiudizio è che: l’adozione deve essere preclusa, anzi vietata, alle coppie gay perché un bambino necessita per la sua crescita equilibrata di figure genitoriali di sesso diverso. Ebbene, non esiste alcun dato scientifico, ricerca, esperienza o dato oggettivo, che possa confermare ciò. L’assunto è frutto, dunque, di pregiudizio, o fantasia, o meglio di “fantapregiudizio”.
La sentenza non ha fatto altro che ribadire un principio ormai costante ed affermato nella giurisprudenza europea ed italiana, secondo il quale “non esistono dati statistici o ricerche scientifiche che dimostrino che è pregiudizievole per un bambino vivere in una famiglia creata da una coppia omosessuale”. Quindi stiano sereni i detrattori, dormano sonni tranquilli i puristi della famiglia cattolica, visto che siamo in tempi di sinodo, poiché tutto ciò che vanno blaterando è solo frutto dei loro peggiori incubi.
Fortunatamente il diritto, nobile arte, ci permette di fare considerazioni senza le incrostazioni religiose, pseudo-moraliste, ma solo alla luce delle umane relazioni, così come emergono dal fluire eterno della vita.
Nel caso di Roma si trattava semplicemente di consentire ad una bambina nata dalla compagna della ricorrente (colei che ha chiesto cioè l’adozione) di continuare ad avere il rapporto genitoriale con quest’ultima, rapporto che si era già sviluppato sin dalla sua nascita. Fin dalla nascita la bambina ha vissuto, infatti, con la madre e la ricorrente, ed entrambe hanno svolto, in totale ed amorevole condivisione, tutti i compiti di accudimento ed educazione della minore. Entrambe le conviventi hanno, dunque, avuto un ruolo genitoriale importante, tanto che la bimba chiama entrambe “mamma”. Dall’istruttoria è, poi, emerso che la piccola è sana, serena e l’ambiente familiare in cui sta crescendo è adeguato alla sua crescita equilibrata. Dunque? Il Giudice cosa avrebbe dovuto fare? Strappare la bambina al suo amorevole ambiente familiare, per sciocchi e fantasiosi pregiudizi, provocandole una sofferenza immane e magari relegarla in qualche orfanotrofio, che sono noti per garantire l’equilibrio psico-fisico dei minori? Ai benpensanti chiedo di porsi questa domanda!
Il Tribunale per i minorenni di Roma ha fatto l’unica cosa logica che “doveva” fare, alla luce della costante giurisprudenza, ma soprattutto delle leggi vigenti, che, sia chiaro, non discriminano tra coppie gay e coppie etero. Richiamandosi, dunque, alla legge, che disciplina le adozioni in casi particolari, (non quindi alla legge in materia di adozione “legittimante”, che è concessa solo alle coppie sposate da almeno tre anni) ha, giocoforza, consentito l’adozione della minore, che non si trovava in stato di abbandono e che, secondo la legge, poteva, dunque, essere adottata dal coniuge del proprio genitore, anche se costui non è coniugato, specifica la legge, con il genitore, purchè sia legato al minore da un rapporto stabile e duraturo. E qual è l’interesse a cui si deve guardare in questi casi? A quello del minore. Infatti il Tribunale di Roma ha ritenuto che, in questo caso, l’adozione realizzasse l’interesse della minore. La sentenza, appunto, richiama quanto già pronunciato dalla Suprema Corte in una sentenza relativa all’affidamento condiviso di un bambino. Il padre ne aveva chiesto l’affidamento esclusivo allarmato dal fatto che la madre avesse intrapreso una relazione omosessuale. In quella pronuncia la Cassazione ha affermato che alla base della domanda del ricorrente non erano state poste certezze scientifiche o dati di esperienza, bensì ancora la fantasia del pregiudizio, secondo cui sarebbe dannoso per l’equilibrio psico-fisico del bambino il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale. Ma questo è tutto da dimostrare, e sulla base di concetti moralistici dal sapore inquisitorio non si può ritenere dimostrato ciò che, invece, non lo è, cioè la dannosità per il bambino di un contesto familiare siffatto.
Dunque prima di appellarsi a presunte leggi naturali ed universali, fermiamoci un attimo a riflettere e vagliare se sia meglio per un minore finire in orfanotrofio, oppure continuare, o anche cominciare, serenamente la sua vita con mamma e mamma o con papà e papà. Le scelte, quelle che sembrano preoccupare i più, le farà quando sarà il momento e, certamente, con la mente ed il cuore sereno di chi ha avuto una crescita, comunque, equilibrata, perché avvenuta in un ambiente pieno di amore.
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