AdWords è il servizio di posizionamento su internet gestito da Google tramite il quale gli operatori economici sono in grado di far apparire dei link pubblicitari diretti al loro sito istituzionale in occasione dell’inserimento, nel motore di ricerca, delle keywords corrispondenti a quelle scelte dall’inserzionista. Caratteristica peculiare del servizio è che la scelta delle parole chiave utilizzate per l’annuncio pubblicitario avviene in piena libertà (quindi sotto la piena responsabilità dell’inserzionista) e senza alcuna forma di controllo preventivo da parte di Google.
Negli ultimi anni, tuttavia, si è affacciato nel panorama concorrenziale un fenomeno di particolare delicatezza, ovvero la registrazione quali keywords di parole e segni corrispondenti al marchio di imprese concorrenti.
In tale contesto il caso più famoso è, forse, quello che ha visto quale protagonista il produttore di beni di lusso Louis Vuitton che, insieme ad altre società, lamentava l’uso illegittimo dei propri marchi di impresa da parte di soggetti concorrenti (i quali offrivano imitazioni di prodotti e marchi registrati), attraverso il servizio AdWords messo a disposizione da Google.
La fattispecie coinvolge, a ben vedere, almeno tre soggetti: il titolare del marchio registrato e/o dei segni distintivi tutelati dalla normativa sul diritto industriale; l’inserzionista/contraffattore del marchio registrato che tramite la propria condotta illegittima viola un diritto di privativa e attua un’attività di concorrenza sleale; l’intermediario fornitore del servizio di posizionamento su internet.
Come, tuttavia, riconosciuto dalla giurisprudenza di merito e di legittimità di diversi Stati e, in seguito, dalla Corte di Giustizia europea (investita dalla Corte di Cassazione francese che lo scorso 14.11.2011 ha deciso la questione applicando i principi posti), le responsabilità conseguenti a un uso distorto del servizio non sono uguali per l’inserzionista e l’intermediario.
Premessa imprescindibile è che la società titolare di un diritto di privativa possa legittimamente impedire a terzi di farsi pubblicità su internet utilizzando, quale parola chiave del servizio di posizionamento, il proprio marchio o altro segno distintivo qualora l’utente medio della rete, leggendo l’inserzione pubblicitaria, non sia in grado di rendersi conto immediatamente che i prodotti pubblicizzati non provengono dalla società titolare del marchio o da altra impresa a questa collegata. Nessun dubbio, pertanto, che l’utilizzo di una parola o di un simbolo riconosciuti in esclusiva possa essere contestato e inibito in via diretta al contraffattore (ovvero a chi utilizza la parola chiave corrispondente al marchio per attirare i clienti del concorrete) il quale, sfruttando tali parole chiave, si fa pubblicità mediante la visualizzazione e diffusione di annunci fuorvianti nella misura in cui non rendano chiaro da quale impresa provengono determinati prodotti o servizi.
Per quanto riguarda, invece, la posizione dell’intermediario la Corte di Giustizia ha escluso ogni responsabilità in capo al fornitore del servizio di posizionamento su internet che, per l’attività di organizzazione e visualizzazione degli annunci pubblicitari, utilizzi marchi e segni distintivi altrui (peraltro caricati on-line dall’inserzionista) senza il consenso del titolare. Siffatta esclusione discende, secondo la Corte, dal tipo di attività svolta dall’intermediario in quanto non è finalizzata a offrire al pubblico beni o servizi in concorrenza con quelli forniti dal titolare dei segni distintivi. Dal punto di vista giuridico la Corte, alla luce della Direttiva 2000/31/CE in materia di commercio elettronico, ha ricondotto il servizio di posizionamento nell’ambito dei servizi di hosting sempre che il fornitore abbia rivestito un ruolo del tutto passivo (ciò significa che l’intermediario ha solo messo a disposizione degli inserzionisti gli strumenti automatizzati per la creazione degli annunci senza esercitare un preventivo potere di controllo).
Se per tale servizio, ex art. 14 Direttiva 2000/31/CE, i fornitori di hosting non possono essere ritenuti responsabili per le informazioni memorizzate sui propri server, del pari anche il fornitore di servizi di posizionamento non potrà in alcun modo considerarsi responsabile per i dati memorizzati su richiesta (e tramite l’attività diretta) dell’inserzionista. Una diversa valutazione porterebbe, all’opposto, a onerare il prestatore del servizio dell’obbligo di dover chiedere sempre il permesso per utilizzare il nome di un marchio per qualsiasi tipo di risultato di ricerca pubblicizzato con ciò estendendo la tutela del marchio la cui funzione consiste nel garantire ai consumatori la provenienza del prodotto o del servizio da una ben precisa impresa.
In realtà, tramite il posizionamento su internet, l’intermediario mette a disposizione dei consumatori la possibilità di scelta di beni e servizi in risposta alle loro ricerche online. Da siffatta considerazione se ne deduce che ogni violazione della funzione tipica del marchio debba ricadere interamente (ed esclusivamente) su coloro che intendono vendere i prodotti concorrenti con tali tecniche commerciali scorrette.
All’opposto sussiste invece la responsabilità dell’intermediario nella diversa ipotesi (considerata dalla Corte) che si verifica qualora il prestatore del servizio, travalicando il suo ruolo meramente tecnico e passivo, venga a conoscenza della natura illecita dei dati memorizzati sui propri server e ometta di porvi rimedio.
Magazine Economia
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