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affamare la bestia

Creato il 14 settembre 2015 da Gaia

‘Affamare la bestia’ è un’espressione nata negli anni ’80 per descrivere un’idea di politica economica di stampo conservatore adottata anche da Ronald Reagan, che fu presidente degli Stati Uniti dall’81 all’89. L’idea è semplice: se si tagliano le tasse, il governo (la ‘bestia’) ha meno fondi a disposizione, riduce la spesa e inevitabilmente si ridimensiona. In realtà non sembra che la strategia funzioni, dato chegli stati si finanziano con il debito e non solo con le tasse, e piuttosto che tagliare servizi che valgono voti o rinunciare alle proprie politiche (o guerre) un governo può scegliere di indebitarsi e posticipare la soluzione del problema, sperando magari che tocchi a qualcun altro.

Non è mio interesse rispolverare una teoria screditata che proviene dal gruppo di persone con cui ho probabilmente meno cose in comune al mondo (i ricchi americani che non vogliono pagare le tasse). Solo che, siccome affamare la bestia è proprio il genere di sabotaggio su cui sto riflettendo ultimamente, e l’espressione è così efficace, non posso appropriamene senza citazione.

La bestia che ho in mente, però, è molto più spaventosa di quella che si trovavano di fronte i contribuenti americani negli anni ’80.

Preciso subito che io sono per, non contro, le tasse. Innanzitutto, sono contraria alle grandi diseguaglianze di reddito e favorevole alla redistribuzione, e le tasse servono anche a questo. Soprattutto, però, le tasse sono assolutamente necessarie per una società che comprenda più di poche centinaia di individui o non sia basata sulla schiavitù. La premessa è sempre quella, ma ricordarla è necessario: siamo degli animali che sono in grado di vivere solo in società. Siccome dipendiamo dalla società, dobbiamo contribuire ad essa, e siccome la nostra è una società iper-monetarizzata, il nostro contributo viene riscosso in denaro. Questo è un primo problema. Se il contributo dovesse essere il tempo o il lavoro, non sarebbe possibile nascondersi. Tutti si accorgerebbero di chi c’è o non c’è a pulire la strada quando è il suo turno. Questo genere di contributo è però possibile solo in società molto piccole, le quali sono, ripeto anche questo, il genere di società che io asupico, ritenendo sulla base sia delle mie letture che delle mie esperienze che i benefici della partecipazione, del potere e del consumo a livello locale superino di gran lunga gli svantaggi (per ovviare ai quali si può cercare di federarsi mantenendo la propria autonomia). Inoltre, un contributo alla società elargito in natura permetterebbe anche di godere immediatamente e visibilmente dei frutti del proprio impegno. Ora invece paghiamo, e poi tutto si dissolve in un marasma inestricabile. Gran parte dell’ostilità nei confronti delle tasse si può probabilmente spiegare con il fatto che le persone non vedono dove vanno a finire i loro soldi, e quindi possono concentrarsi sul tipo di spesa che più conferma la loro visione del mondo e i loro interessi personali, piuttosto che cercare di essere obiettivi. Due comunità distinte all’interno degli stessi confini possono provare risentimento l’una nei confronti dell’altra perché entrambe hanno la percezione che le proprie tasse vadano all’altra, e non si rendono conto dei benefici che invece ricevono. Me ne sono accorta vivendo in montagna: ho sentito cittadini criticare la mentalità assistenzialistica dei montanari, e qui la gente non fa che lamentarsi delle tasse che paga e sentirsi “dimenticata”. E questo in un momento in cui le cose funzionano ancora abbastanza bene: le strade rotte vengono riparate, i rifiuti scompaiono poche ore dopo che sono usciti dalle case, i bambini vengono vaccinati… Il problema è che il sistema è talmente complicato che è davvero impossibile per un cittadino medio capire se la sua comunità viene sfruttata o sfrutta le altre, chi ci guadagna e chi ci perde, e come. Questo è uno dei motivi per cui inizio anch’io a chiedermi se non ci possa essere un sistema migliore.

Un altro motivo è quello a cui accennavo prima: la finanza. Io non voglio che le istituzioni, di nessun tipo, a nessun livello, si finanzino con il debito. Siccome il debito si ripaga con gli interessi, finanziarsi con il debito regolarmente e non in casi eccezionali significa dedicare una parte degli introiti, e cioè delle tasse dei cittadini, a pagare interessi alle banche e alle altre istituzioni finanziarie. Non importa se poi alcuni di quegli stessi cittadini guadagnano con questo sistema: si tratterà inevitabilmente di cittadini che già hanno soldi da investire, e quindi sono privilegiati; inoltre, dato che banche e finanza in generale danno lavoro a un sacco di gente, che siccome vende soldi sa come fare a tenerne una grossa fetta per sé, e che comunque non produce nulla, finanziare la spesa pubblica con il debito significa ingrassare un settore che oltre un certo limite è soltanto parassitario, e che per giunta è un parassita costoso. Finanziarsi con il debito significa rinunciare a spendere per opere o attività che beneficiano tutti, e dirottare una parte di risorse in spese improduttive.

Inoltre, più la finanza aumenta di dimensioni più ha potere, e se finisce per diventare la principale fonte di finanziamento per il governo finisce anche per dettarne le politiche. Se oggigiorno lo spread, o il “rating” di un paese, rappresentano un problema così pressante, questo accade perché il paese in questione dipende per il suo finanziamento dai creditori e dalla loro opinione di esso. Tale opinione si cambia cambiando politiche – le stesse, però, che dovrebbero essere decise dai cittadini. Un eccessivo ricorso all’indebitamento vanifica il processo decisionale democratico. Decidono i mercati o lo stato è a secco. I cittadini perdono il potere che viene loro conferito dall’esistenza stessa della democrazia.

È davvero necessario, in assoluto, prendere soldi in prestito? E se sì, è davvero inevitabile doverli restituire con gli interessi? Molti dicono che non è possibile sostenere la decrescita senza porsi il problema degli interessi, dato che solo un’economia in espansione garantisce di ripagare gli interessi sui soldi presi in prestito. In teoria, però, quegli stessi interessi potrebbero servire solamente a compensare per chi non ripaga il debito e a coprire i costi amministrativi, e allora potrebbe forse esistere il prestito con gli interessi anche senza crescita. Ma in pratica potrà mai essere così? Non lo so. Mi sembra incredibile, ma non lo so. Non ho ancora capito fino in fondo il debito, e la nostra società si basa sul debito.

Ma neanche il debito è un motivo sufficiente per non voler più pagare le tasse. Il fatto è che io non sono d’accordo con il modo in cui i soldi delle tasse vengono spesi, e non credo più che sia possibile influenzare davvero le scelte di un governo, soprattutto di un governo che amministra i soldi di ben sessanta milioni di persone.

Non sono d’accordo in pratica nemmeno con le cose con cui sono d’accordo in teoria. Non sono d’accordo con la spesa sanitaria, anche se sono d’accordo con il fatto che servano medici e cure gratuite. Però non sopporto più l’abuso di tutto, gli stipendi dei dirigenti, i nuovi ospedali inutili, l’eccesso di farmaci ed esami, lo status dei medici, l’usa e getta, la longevità iper-medicalizzata come diritto universale. Non sopporto che la sanità non sia più, tra ticket, liste di attesa, mancanza di tempo dei medici, veramente gratuita, perché chi vuole essere curato con attenzione in molti casi è costretto a pagare, e tanto. Non è gratuita per gli utenti ma costa lo stesso ai contribuenti.

Non sono d’accordo con le scuole per come sono ora, e men che meno con l’università. Sono d’accordo con la possibilità di istruzione per chi la voglia, con un controllo sulla preparazione di alcuni professionisti, e con una retribuzione se necessario per chi insegna, ma non con il modo in cui l’insegnamento è impartito oggi nel nostro paese e in tutto l’Occidente. Sono d’accordo con la parità di opportunità per cui chiunque possa provare ad accedere a un mestiere o un sapere, ma non sono d’accordo con lo snobismo della laurea, con i corsi inutili, con la tortura forzata dell’insegnamento di nozioni a chi quelle nozioni non le vuole o non le può ricevere, con il greco, con il latino, con le lauree farlocche, con la carne nelle mense scolastiche, con i bicchieri di plastica e i peperoni a gennaio… Non solo non sono d’accordo, ma sono orripilata dall’abuso della ricerca, dalla gara delle pubblicazioni inutili, dal dottorato come parcheggio per chi non sa cos’altro fare.

Non sono d’accordo con le grandi opere. Le piccole opere di manutenzione potrebbero essere finanziate ed eseguite direttamente dalla comunità.

Non sono d’accordo con le politiche europee di sovvenzioni all’agricoltura, inique, laboriose, innaturali, così complicate che i contadini devono pagare qualcuno per capirle e poi neanche questi le capiscono più.

Non sono d’accordo con l’infinita burocrazia dell’Unione Europea, con la sua mancanza di trasparenza, con le sue lobby, le sue istituzioni troppo lontane da tutti i cittadini che dovrebbero rappresentare. Sono d’accordo con la coordinazione tra le politiche dei diversi stati e regioni europee, ma non con le sovrastrutture permamenti, e comunque mi sembra chiaro che quando c’è un problema vero, come questo dei profughi, il caos è totale, ognuno cerca di fare i propri interessi e chi crede o mostra di credere in una politica comune, come l’Italia, fa solo la figura del mona.

Non sono d’accordo con l’eccesso di burocrazia ovunque, a dire il vero.

Non sono d’accordo con le spese militari per missioni all’estero, tra l’altro mentre il nostro paese viene invaso e l’esercito non c’è.

(C’è chi non crede nei confini, ma se non ci sono confini allora non dovrebbe nemmeno esserci un esercito, a rigor di logica, altrimenti a cosa serve?)

Non sono d’accordo con gli stipendi ai dirgenti pubblici, coi costi della politica, con una RAI che spende milioni per fare Sanremo.

Non sono d’accordo con il welfare attuale, che privilegia chi ha già un lavoro e non lascia niente a chi non lo trova. Non sono d’accordo con le pensioni, e nemmeno con i bonus bebè. Vorrei un semplice reddito minimo ma ci sono troppi interessi che andrebbero sacrificati e non si riesce a farlo passare.

Non sono d’accordo con gli incentivi a chi compra un’auto nuova, a chi ristruttura, a chi fa l’albergo diffuso, a chi compra mobili, in sostanza a chi spende anziché risparmiare; non sono d’accordo con la sequenza interminabile di incentivi al consumo spacciati come qualcosa di ecologico.

Sono per il trasporto pubblico ma forse basterebbe pagarlo con i biglietti; non sono d’accordo con i miliardi spesi per l’alta velocità e le sovvenzioni agli areoporti, alla promozione turistica e ai voli low cost, per cui chi non viaggia paga le vacanze degli altri.

Non sono d’accordo con la terza corsia della A4.

Non sono d’accordo con il fatto che ci debbano essere tutti questi livelli di comando: il Comune, la Provincia, la Regione, lo Stato, l’Unione Europea, il Consiglio d’Europa, l’ONU, la NATO, tutte istituzioni che costano un casino, e nessuno è mai responsabile di niente.

Non sono d’accordo con l’accoglienza di massa a tempo illimitato per i profughi, né con i costi futuri derivanti dalla permanenza di queste nuove persone sul territorio europeo già troppo provato, e inizio a pensare anch’io che sarebbe meglio spendere quei soldi per aiutare i tanti cittadini europei sempre più in difficoltà – prima che diventino violenti.

Non sono d’accordo con la violenza sistematica della polizia e con la costosissima repressione del dissenso; non sono d’accordo né con la TAV né con tutti i soldi spesi per bastonare i valsusini che non la vogliono.

Non sono d’accordo con le diseguaglianze nei salari del settore pubblico, ma spesso anche i salari medi e medio-bassi mi sembrano eccessivi.

Ma soprattutto, e fondamentalmente, non sono d’accordo con la politica crescista promossa con i soldi pubblici tramite le sovvenzioni al consumo, alla riproduzione, alla produzione e al debito.

Sono talmente tante le cose con cui non sono d’accordo che se si pagassero le tasse davvero solo per le cose che propongo io sarebbero così poche che non sapremmo cosa farcene dai soldi che ci rimangono – ma, probabilmente, non ci rimarrebbero molti soldi. Io propongo uno smantellamento del sistema di governo ed economico attuale e la sua sostituzione con qualcosa di molto più piccolo, locale, compatibile con le risorse ambientali e con i principi della decrescita. E a quel punto tutti forse rimpiangerebbero le tasse, perché si accorgerebbero che quella macchina distruttrice delle risorse e del tempo che è l’economia in cui viviamo e che comprende la riscossione e redistribuzione dei tributi faceva arrivare qualche cosa anche a loro, e con la decrescita ci sono meno soldi per tutti.

Non ho parlato del motivo principale per cui solitamente qualcuno si ritiene in diritto di evadere le tasse, cioè perché sono troppo alte. Sicuramente, ci sono attività commerciali messe in crisi e forse anche costrette a chiudere per colpa delle tasse. Non so, però, se sia un buon motivo per non pagarle. A rigor di logica, le tasse sono le stesse per tutte le attività simili, quindi chi non è in grado di reggere la concorrenza non può pretendere tasse minori solo per sé. Uno può lamentarsi del fatto che gli altri non pagano, e quindi rifiutarsi di pagare a sua volta, ma si torna al punto di prima: perché qualcuno smette di pagare?

Gli italiani che non pagano le tasse forse credono di farlo per i motivi che ho elencato – ad esempio, perché i politici guadagnano troppo – ma in realtà non lo fanno o perché non possono (o meglio ritengono di non potere) o perché sono avidi. Si lamentano delle tasse i dipendenti pubblici, gli imprenditori rimpinzati di contributi, la gente che viaggia continuamente sulle stesse strade che non vuole pagare e i beneficiari di ogni tipo dell’onestà altrui. Finché l’obiezione alle tasse rimane una forma di egoismo e di disonestà intellettuale, la spesa pubblica resterà irriformabile. Purtroppo, però, inizio a pensare che la spesa pubblica sia irriformabile comunque.

In teoria, la democrazia dovrebbe garantire che i rappresentanti eletti dal popolo amministrino i preziosi tributi riscossi in un modo che accontenta la maggioranza del popolo e rispetta i principi fondanti della forma che questa democrazia ha assunto. Se il denaro diminuisce, le spese più importanti per la collettività dovrebbero essere salvaguardate a discapito di quelle con un minor numero di sostenitori e un maggior numero di detrattori, oppure di quelle non essenziali per il funzionamento dell’economia e la sopravvivenza stessa della società. In pratica, però, non funziona così. Perché, ad esempio, nonostante la gravissima crisi in cui versa il nostro paese, si insiste con questi F35 che nessuno vuole e che non funzionano? E perché non si riescono a tagliare seriamente gli stipendi dei politici e degli alti dirigenti, di cui il popolo è scontento da anni e anni? Nonostante la crisi, la spesa pubblica non è razionale e non sembra nemmeno organizzata nell’interesse comune. Le tasse, le spese, il debito e l’evasione fiscale sono tutti alti. Quindi affamare la bestia non funziona, perché se non le dai da mangiare la bestia mangia te.

E anche se i politici fossero seriamente intenzionati a portare avanti la volontà dell’elettorato, e tale volontà si fosse espressa abbastanza chiaramente, negli ultimi tempi interventi esterni da parte di istituzioni non democratiche e gruppi finanziari garantiscono che questo non avvenga.

In Grecia, il popolo si è espresso attraverso le elezioni prima e il referendum poi. Abbiamo visto tutti quanto questa volontà sia stata rispettata. Quando ci si è indebitati così tanto, in pratica ci si è venduti. E quando non appartieni a te stesso ma a chi ti ha comprato non sei libero. Se paghiamo le tasse, finanziamo un sistema corrotto e ormai ingestibile. Se non paghiamo le tasse, non facciamo che incoraggiare il ricorso al debito per mantenere la spesa, con la scusa che così l’economia “riparte” e aumentano le entrate tributarie. Questo lo dice Renzi ma è sostanzialmente la stessa cosa che dice Tsipras. La differenza tra Tsipras e gli altri leader europei è meno profonda di quanto appaia: se Tsipras non fosse stato un crescista come tutti gli altri, forse la sua proposta sarebbe stata il default.

Certo: ci si può candidare con proposte davvero alternative di riduzione della spesa e del debito. Ma, anche vincendo, poi un groviglio inestricabile di interessi economici, sociali e individuali farà sì che non possiamo mantenere le nostre promesse, qualunque esse siano. Si opporranno i sindacati, si opporranno i costruttori, si opporranno i comuni, o le province, o le regioni, o le banche (che nel frattempo sono di nuovo entrate in crisi e vogliono soldi per essere salvate), o si opporrà la Germania, insomma si opporranno alcune delle infinite parti in una società ed economia che è diventato evidentemente impossibile riformare. Mi sono ormai convinta che prima o poi ogni sistema umano crolla – per i cosiddetti ritorni decrescenti, perché va a sbattere contro limiti materiali e di risorse, perché si riempie di incrostazioni che ne bloccano il funzionamento o perché viene spazzato via da qualche nuovo sistema. Ci sono tutti i segnali per pensare che anche i sistemi attuali, cioè la civiltà industriale e globale, e forse anche lo stato per come lo conosciamo, crolleranno. Forse non ne crolleranno le apparenze, ma ne crollerà la sostanza: qualcuno pensa ancora che la Grecia sia davvero uno stato sovrano? O che all’Italia sarà risparmiata la stessa sorte?

(O che il TTIP non passerà?)

In Italia il debito pubblico è circa 2,200 miliardi di euro (cambia di mese in mese, ma la tendenza è all’aumento). Questo significa 36,000 euro di debito a testa per ogni italiano, compresi neonati e nullatenenti. È praticamente impossibile che venga ripagato. Qui mi fermo: purtroppo la questione del debito è davvero complessa, e io non sono un’esperta; come sapete, io penso che ogni complessità non necessaria andrebbe evitata, perché penso che per prendere buone decisioni le persone dovrebbero essere in grado di capire le questioni che si presentano, e quasi nessuno capisce il debito pubblico e tutte le sue conseguenze.

Una crescita che riduca il rapporto tra debito e PIL sembra ormai impossibile, come ho già scritto, e per fortuna, visto quello che la crescita fa all’ambiente. Pagare il debito significherebbe tagliare le spese in un modo che nessuna collettività accetterebbe; il default significherebbe un tentativo di ritorno all’autosufficienza con sacrifici che, di nuovo, nessuna collettività accetterebbe. Questo significa che non c’è scelta se non alimentare questa follia finché non crolla da sola trascinando tutto con sè?

Io rispetto il volere altrui, ed è per questo che mi trovo in un dilemma di così difficile soluzione: non posso fare obiezione di coscienza sulle tasse, non posso sperare che le mie idee trovino un’applicazione democratica perché sono impopolari e soprattutto perché la democrazia non sta funzionando più, e al tempo stesso finanziare un sistema fatiscente e irriformabile significherebbe sprecare le mie poche risorse che vorre invece dedicare alla costruzione di un sistema migliore per le circostanze in cui ci troviamo.

Che sia chiaro: io non evado le tasse. Mi è capitato, come sarà capitato anche a voi, di lavorare a nero per necessità (e per somme molto piccole, se non altro). Ora cerco di non fare nemmeno quello, anche se è molto, molto difficile: quando qualcuno ti offre del denaro a condizioni non trattabili, e tu non hai altre fonti di reddito, e decidi di rifiutarlo perché è a nero e non è giusto, rischi pure che ti dicano che non hai voglia di lavorare. Provate poi a chiedere un contratto per dare dell ripetizioni, o anche dei semplici voucher, e mi direte cosa vi rispondono. Nel complesso, comunque, io guadagno così poco che credo che mi restituiscano anche le tasse che verso. E mi dispiace. Per scrivere le cose che sto scrivendo oggi mi sarebbe molto utile poter dire di fare la mia parte. Credo di fare qualcosa per il bene comune, per lo meno per come lo definisco io, ma questo contributo non viene retribuito.

Quando uscì il mio primo romanzo io andai in cartoleria, comprai un blocchetto di ricevute, e ne rilasciati una per ogni copia che vendevo personalmente. Portai le ricevute al commercialista e lui mi disse che non servivano a niente. Mi viene quasi tenerezza se ci penso. Avrei dovuto avere la partita iva per rilasciare ricevute. Non vendo abbastanza libri per aprire una partita iva. Ma le tasse le volevo pagare.

Capirete, quindi, il mio dilemma. Da un lato, un apparato mostruoso e impenetrabile che divora le cose in cui credo e alimenta quelle contro cui mi batto. Dall’altra, il nulla. Niente che lo possa sostituire, se non quel poco di solidarietà paesana, quelle briciole di autoproduzione, quei frammenti di saperi tradizionali e di beni pubblici che sono rimasti, e che senza lo stato e il sistema internazionale che sto criticando non resisterebbero un giorno (altrimenti la Grecia sarebbe uscita dall’euro). Prima che emerga un’alternativa credibile potrebbero volerci secoli, e potrebbe non essere un periodo piacevole – così come l’Impero Romano, efficiente ma basato sullo schiavismo e sull’espansione violenta, lasciò il posto a un sistema feudale, localizzato ma iniquo, dopo secoli di invasioni che furono un trauma ricorrente le cui tracce si trovano tutt’attorno a noi.

Non pagare le tasse non è una soluzione. Pagarle significa alimentare una serie di sperperi talmente lunga che ogni tanto mi stupisco che costino così poco.

Gli evasori, soprattutto i grandi evasori, sono una delle categorie più ripugnanti nella nostra società: ricchi ma egoisti, bugiardi, costantemente sulla difensiva, vivono i loro successi alla luce e i loro peccati nell’ombra. Usano eufemismi per i furti che commettono, si atteggiano a vittime, accusano gli altri di colpe inferiori alle proprie. Non vorrei trovarmi nella loro compagnia neanche se la mia stessa sopravvivenza dipendesse da questo.

Le tasse, inoltre, servono anche come sistema di disincentivi per cose dannose ma che si è deciso di non vietare completamente (avere più di una casa, utilizzare l’automobile, fumare o ubriacarsi…) e viceversa di incentivi per cose che si ritiene sia bene agevolare, come comprare libri. Funzionano, anche se molto male, come correzione delle esternalità: non si può sempre impedire di inquinare, ma si può almeno recuperare una parte dei soldi spesi per riparare ai danni causati dall’inquinamento da parte di qualcuno. Uscire dal meccanismo significa rifiutarsi di risarcire la collettività per i danni ad essa causati dai nostri comportamenti. Purtroppo, però, la necessità di garantire all’enorme macchina pubblica, e al pagamento di interessi, sempre più risorse fa sì che vengano tassati per forza anche comportamenti che sarebbero positivi ma è troppo costoso non tassare, quali l’assumere persone per condividere il lavoro e il reddito. Inoltre, per paura di proteste o di scontentare potentati le tasse non riflettono veramente il costo sociale di comportamenti dannosi: secondo nientemeno che il Fondo Monetario Internazionale, il consumo energetico è finanziato globalmente da 5,300 miliardi di sussidi all’anno. Capite perché parlo di bestia anch’io? Da un lato, si usano soldi pubblici raccolti con le tasse per riparare ai danni causati dall’abuso energetico o addirittura per incoraggiarlo; dall’altro, la soluzione sembra essere tassare il consumo energetico per ridurlo e quindi diminuirne l’impatto. Un paradosso.

Io non voglio evadere le tasse perché non voglio sottrarmi alle regole a cui devono sottostare tutti gli altri e non voglio vivere nascondendomi. Nemmeno voglio contribuire a questo sistema. Credo di aver trovato una soluzione, parziale ma perfettamente legale, ma prima di dirvela devo provarla e vedere se funziona.


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