Da qualche parte ho letto che i soldi spesi in dischi equivalgono a quelli che altri pagano per andare dallo psicanalista. Un po’ mi sa che è vero, anche se dubito fortemente che chicchessia sia riuscito a risolvere qualcosa attraverso una collezione di Lp, magari capisci qualcosa di te stesso ma il rischio reale è di rimanerci incastrato per sempre. Do To The Beast può essere un valido candidato a questo ruolo di album officinale, come del resto qualsiasi altra cosa incisa da Greg Dulli, essendo il singer dell’Ohio inarrivabile maestro dell’esplorazione del lato più nascosto (e peggiore) che caratterizza l’animo maschile.
Ma facciamo un passo indietro. Quando venne annunciata la reunion degli Afghan Whigs (senza il chitarrista Rick Collum per giunta) la cosa mi lasciò abbastanza interdetto. Rimettere insieme una band è in genere una decisione presa da gente artisticamente alla frutta e, soprattutto, ero stupito che il cantante fosse interessato a un’operazione del genere, essendo i Twilight Singers per certi versi una band addirittura migliore di quella che li ha preceduti, meno alternative rock nell’accezione classica ma con un senso del notturno e una capacità di creare atmosfere che gli AW non possedevano. Insomma, un sacco di questioni di principio (profonde convinzioni morali che nella mia vita applico al solo campo del r’n’r) me ne hanno tenuto lontano per qualche mese. Poi qualche tempo fa ho letto che avrebbero fatto un tour celebrativo di quel capolavoro chiamato Gentlemen e il mio interesse si è in qualche modo riacceso. La prima considerazione è appunto per Gentlemen, album bello oggi quanto quando è uscito; dopo averlo risentito sono stato sollevato dal fatto che quando lo ascoltai al tempo ero in una situazione sentimentale tranquilla, perché è il tipo di disco che se ti becca al momento sbagliato rischi di finire col cappio al collo, o comunque di non riascoltarlo più perché rischierebbe di essere troppo doloroso. Rispolverato e ri-innamorato del vecchio quindi ho deciso di provare anche con quello nuovo.
La linea di contiguità con il classico del ‘93 è per alcuni versi evidente, Do To The Beast è un album di un’introspezione tale che nel suo evocare spettri sa più di seduta spiritica che di un semplice colloquio dall’analista. Le similitudini con la band che abbiamo lasciato a fine anni novanta riguardano soprattutto questo aspetto; l’assenza della chitarra-grattugia fa invece sì che questo sia a tutti gli effetti un album dei Twilight Singers con John Curley al basso (autore di una prestazione eccellente, tra l’altro). Al netto delle questioni stilistiche, comunque, il disco è semplicemente splendido. Greg Dulli è (da parecchio ormai) uno dei miei 3/4 songwriter preferiti di sempre (insieme ad un noto mancuniano e un altro paio): un James Dean di mezza età più grasso e complessato, totalmente privo di autoironia e per sempre incastrato nel proprio stereotipo. Dulli sa mettere in scena se stesso con una franchezza violenta, senza temere di esporre in alcun modo il proprio mix di fragilità nascoste e innata stronzaggine maschile. Educazione cattolica, costantemente alla ricerca del torbido che la vita può offrire ma bramoso di redenzione e vittima di un senso di colpa fuori controllo. Storie e confessioni che sembrano uscite da un libro di Chandler o Edward Bunker: strade secondarie, cuori infranti e nasi rotti, fughe nella notte, micro criminalità e amori consumati sui sedili posteriori delle macchine. Ho mandato giù i testi a memoria come non avveniva da tempo e, in un tardivo rigurgito di adolescenza, ho anche avuto quasi voglia di trascrivere i testi sul diario segreto come facevano le compagne del liceo con le canzoni di Masini. Do To The Beast lo puoi sentire dall’inizio alla fine, in shuffle, provare a smontarlo ma alla fine non riesci a trovare un vero punto debole. Matamoros è una valanga di stile, la prima canzone al mondo che in meno di tre minuti riesce a trasformare l’ultimo degli sfigati in Ryan Gosling. La ascolti e ti viene voglia di indossare un completo elegante, mettere il dopobarba e andare ad infilarti in qualche guaio di quelli seri. Tutto il disco è un mega cinema dell’interiorità fatto di discorsi allo specchio (It Kills, Algiers), sospensioni nervose (Can Rova, I Am Fire) e sbocchi rabbiosi (Royal Cream). Poi c’è il finale: These Sticks parte esile, passa per un climax orchestrale gigantesco e si conclude con una minaccia esplicita sussurrata nell’orecchio. Il silenzio che lascia dietro di se è carico di una tensione inespressa e un’intangibile inquietudine diffusa. E’ il respiro che si blocca nel petto, è una spiegazione non data, è la promessa che da oggi non ci saranno mai più sonni tranquilli. Indie-rock ai massimi livelli possibili.