Dopo la tragica morte dei nostri quattro alpini, l’Italia si interroga sulla propria presenza in Afghanistan e tutti parlano di exit strategy. Nel Paese le forze armate occidentali operano ormai da dieci anni e noi europei siamo stati al traino della strategia americana – puntata sostanzialmente sull’occupazione armata del territorio anziché su una strategia a più livelli (interventi armati “chirurgici”, riforma strutturale delle istituzioni, politiche di miglioramento delle condizioni economiche della popolazione). Il Ministro della Difesa Ignazio La Russa ora propone di consentire ai nostri aerei l’utilizzo delle bombe per proteggere i nostri soldati. I quali operano in condizione di grande pericolo e spesso senza adeguati mezzi di difesa: ovviamente abbiamo il dovere di tutelarli al meglio. Ma la soluzione del dramma afghano passa davvero per i bombardieri?
Chiariamo anzitutto che dopo dieci anni di presenza militare occidentale permane inalterato il vero problema della società afghana: la povertà. L’Afghanistan infatti, con il Sierra Leone, è lo Stato più povero del mondo. E la povertà è il migliore humus per i reclutatori del terrorismo.
Quali risultati ha avuto dunque la presenza armata occidentale?
Parti crescenti del territorio stanno passando sotto il controllo dei talebani (con i quali il governo di Karzai sta avviando trattative), la corruzione permane a tutti i livelli dello Stato afghano, le elezioni sono state segnate da brogli di massa, i civili continuano a morire a causa del conflitto, in questi dieci anni la mortalità infantile anziché diminuire è cresciuta, la condizione delle donne non è certo migliorata, il numero delle donne che muoiono di parto è in aumento, il tasso di violenza nel Paese è in costante crescita, gli aiuti umanitari elargiti dalla comunità internazionale sono finiti spesso nelle mani sbagliate, l’Afghanistan continua a produrre il 91% dell’oppio mondiale (da cui l’eroina) e i tentativi – mal condotti – di far sostituire l’oppio con altre coltivazioni sono falliti.
Se non è un disastro questo…
Politiche alterantive a quella da noi seguita erano possibili? Certo, e qui c’è un appello che mostra come. Ma ora è necessario concentrarsi sul presente e sul futuro. Da più parti si fa notare che non si può consentire che l’Afghanistan diventi un’enorme base di al Qaeda. Oggi però Pino Arlacchi, presidente del gruppo del Parlamento Europeo per l’Afghanistan, ha dichiarato a Rai News che «secondo recenti stime sono appena fra i 50 e i 100 i militanti di al Qaeda in territorio afghano», cioè una cifra risibile. Quelli che sparano sui nostri soldati non sono terroristi di al Qaeda, sono montanari afghani, parenti di quelli che avevano già sconfitto i sovietici.
Non si può fuggire subito dall’Afghanistan, anche perché c’è da rispettare gli impegni presi con una coalizione internazionale. Ma diventa una necessità – improvvisamente riconosciuta da tutti – elaborare una exit strategy (rafforzare la polizia afghana, mettere lo Stato afghano in condizione di non crollare come un castello di carte quando noi occidentali ce ne andremo) tale da evitare il “rischio Somalia”, cioè il rischio di un Paese che torni ad essere lacerato da una spaventosa guerra civile, senza un potere centrale che sia in grado di controllare il territorio ed evitare il ripristino di basi di al Qaeda. Nei prossimi mesi il presidente Obama dovrà fare scelte molto difficili.
Ma c’è anche, a mio parere, un’altra necessità: ripensare in toto – perlomeno da parte europea – la strategia futura di intervento in terreni di crisi, perché l’esempio dei fallimenti in Iraq e in Afghanistan dovrebbe insegnare qualcosa.
E’ mancato clamorosamente, infatti, il know how sul terreno, sulla popolazione, sulla cultura, sul contesto in cui si andava ad operare, e sono quindi state fatte scelte con priorità errate. La stessa cosa che era avvenuta in Iraq, dove l’amministrazione Bush aveva inviato i soldati ma aveva impedito che alle truppe si aggregassero orientalisti e studiosi della società iraqena «per evitare che qualcuno fraternizzi con il nemico». Il risultato, anche in Iraq, era stato una sequela di spaventosi errori politici dovuti ad ignoranza (primo fra i quali quello di abolire l’esercito iraqeno).
Ereditiamo dagli anni nefasti dell’amministrazione Bush una politica letteralmente “ignorante” della situazione in cui si opera, e la prima vittima di questa politica è stata la popolazione civile afghana. Ma le ricadute di questa situazione, quando la exit strategy sarà stata conclusa, si sentirammo ovunque. In Asia, dati i rischi geopolitici che l’instabilità afghana produrrà nelle relazioni già tese fra Pakistan e India. E in tutto il mondo, Occidente compreso. Perché sarà ben difficile evitare che la rete internazionale del terrorismo islamico gridi vittoria.