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Afghanistan: l’instabilità politica che avvantaggia l’Emirato islamico dei taliban
Creato il 23 settembre 2014 da Asadi Claudio Bertolotti
L’8 agosto, il segretario di Stato Americano John Kerry ha incontrato il presidente uscente dell’Afghanistan Hamid Karzai e, in separata sede, i due contendenti alla poltrona presidenziale – Ashraf Ghani Ahmadzai e Abdullah Abdullah –, attori protagonisti di un’anomala competizione elettorale che vedrà entrambi gli antagonisti uscirne vincitori, comunque sia l’esito del (ri)conteggio dei voti. E se, da un lato, Karzai dichiara che il ritardo nella proclamazione del suo successore non può che nuocere alla sicurezza del paese, dall’altro, Kerry preme per una soluzione negoziale in tempi brevi: dunque convergenza di opinioni, almeno nelle parole. Due i fattori dinamici di quest’ultimo periodo: la denuncia di brogli elettorali avanzata da Abdullah – fortemente intenzionato a non desistere dal rifiutare il riconoscimento dei risultati elettorali –, e la soluzione di compromesso di “unità nazionale” da più parti auspicata, benché non in linea con l’espressione democratica dell’elettorato afghano. Ghani e Abdullah hanno giocato entrambi la carta del ricatto dell’instabilità politica e paventato, più o meno indirettamente, il rischio di una guerra civile obbligando gli Stati Uniti ad assumere la responsabilità del mediatore. Washington è così divenuta testimone di un accordo già definito (ma non per questo certo o stabile), proponendosi alla Comunità internazionale come interlocutore capace di far aderire i due candidati a un accordo preliminare per la spartizione del potere che, nelle intenzioni, dovrebbe sbloccare l’imbarazzante empasse. Ghani e Abdullah hanno così siglato un accordo preparatorio di power-sharing basato sull’istituzione del ruolo – non contemplato dalla Costituzione afghana – di "Chief Executive Officer", CEO, soggetto co-responsabile e coordinatore chiamato a esprimersi nel merito di decisioni importanti. Il testo di tale accordo, non rilasciato formalmente dai due firmatari, è stato diffuso attraverso i social-network dai due gruppi di sostegno ai candidati e inviato via e-mail, dal Dipartimento di Stato americano, alle principali agenzie di stampa. Un accordo e una tempistica sui generis che hanno contribuito ad aumentare la confusione tra gli afghani e in un’opinione pubblica internazionale pur distratta da altri conflitti oggi al centro dell’attenzione mass-mediatica. E l’Afghanistan è ormai una realtà marginale, sul piano mediatico e all’interno di cancellerie occidentali sempre più impegnate da una crisi economica dai preoccupanti risvolti sui piani politico-sociali interni. Sulla base di tale accordo, che sul piano tecnico prevede procedure condivise di validazione e annullamento dei voti, l’Afghanistan's Independent Election Commission (IEC) ha annunciato l’adozione dei criteri di scrutinio elaborati con il contributo delle parti e formalizzati dalle Nazioni Unite – un’intesa estremamente fragile che entrambi i contendenti potrebbero rigettare unilateralmente in qualsiasi momento, come dimostra l’atteggiamento tutt’altro che conciliante del candidato Abdullah. Tra le procedure concordate vi sono la definizione delle tempistiche di scrutinio di tutte le circa 23.000 urne elettorali, la verifica dei sigilli e delle schede in esse contenute e, a seguire, il ri-conteggio, l’accettazione o l’invalidamento di ogni singolo voto alla presenza dei rappresentanti di entrambi gli schieramenti, delle Nazioni Unite, del personale dell’IEC, di osservatori nazionali e stranieri, e giornalisti. Il tutto in aderenza a quanto espresso nell’Articolo 58 della legge elettorale afghana, sebbene non sia ancora definito il criterio di invalidamento delle schede ritenute “non regolari” (20 agosto), così come sono indefiniti i criteri di validazione. Via comunque, sotto la supervisione delle Nazioni Unite, al nuovo conteggio delle schede elettorali, al termine del quale si saprà il nome del successore di Karzai. Ma di conteggio molto lento e difficoltoso si tratta poiché, ancora nella seconda metà di agosto, gli stop-and-go si sono alternati ripetutamente a causa delle dispute sull’interpretazione delle regole da applicare. Cosa dovrebbe accadere al momento della proclamazione del nuovo presidente della repubblica afghana? In base agli accordi, il vincitore sarà proclamato Presidente; a lui toccherà formare un governo di unità nazionale. Un governo che seguirà, nella sostanza, alcuni principi condivisi tra i gruppi di potere che hanno aderito alla soluzione di compromesso e che l’Afghanistan Analysts Network ha così sintetizzato: Principi, da più parti auspicati ma non comunemente condivisi poiché le due fazioni discordano su importanti elementi che richiedono un’ulteriore fase negoziale. Questi gli interrogativi: Anche in questo caso una forma di soluzione di compromesso pare essere a portata di mano, ma i dettagli tardano a essere resi pubblici, ingenerando ulteriori tensioni e confusione tra gli stessi addetti alla verifica elettorale, tra l’elettorato afghano e all’interno dei gruppi di potere; non sono mancate minacce di disobbedienza da parte di personaggi influenti, di attuali e aspiranti detentori di cariche pubbliche (in tale dinamica rientra l’emergere del formalmente pacifico “Movimento Verde-Green Trend” – sulla linea del “Movimento Arancione” ucraino – guidato dall’ex capo dei servizi di sicurezza Amrullah Saleh, al cui fianco vi è l’ex ministro degli Interni Hanif Atmar; entrambi emarginati sul piano politico da Karzai, ufficialmente perché non in linea con la politica di dialogo con il Pakistan). L’inarrestabile avanzata dei gruppi di opposizione armata Lo stallo politico si affianca alla mancata formazione dello stato afghano le cui forze di sicurezza nazionali riescono a garantire una funzionalità minima nelle principali aree urbane, ma non in quelle rurali e periferiche nelle quali le forme di autonomia locali si alternano alla capacità organizzative e di amministrazione dei “governi ombra” dei taliban dell’Emirato islamico: forti sul piano militare, capaci su quello amministrativo. Le forze di sicurezza internazionali di Isaf entro la fine dell’anno lasceranno il campo di battaglia propriamente detto all’esercito e alla polizia afghani e verranno sostituite dalle più esigue truppe, in prevalenza non combattenti, della Resolute Support Missione della Nato. Ma i vuoti lasciati dalle truppe di Isaf e la mancanza di capacità delle forze di sicurezza afghane sono stati prontamente colmati dai gruppi di opposizione armata, taliban in testa. Taliban che, sul piano militare, sono intenzionati ad avanzare. Come già nel 2010, i taliban controllano alternativamente tre delle quattro direttrici principali che portano a Kabul, hanno ampliato la propria area di influenza e di presenza al di fuori della “terra di nessuno” sul confine afghano-pakistano, sono riusciti ad imporre la propria presenza fisica ben oltre i baluardi precedentemente tenuti dalle forze statunitensi e dell’Alleanza atlantica. Il livello di audacia e aggressività è aumentato, portando a un incremento delle azioni dirette e frontali condotte da unità consistenti; un’evoluzione importante, significativa, che si contrappone alle tecniche sino ad ora ampiamente utilizzate contro le forze straniere: colpiscono, con offensive dimostrative, azioni di “massa” (condotte da alcune centinaia di combattenti), come quelle recentemente registrate nell’area di Kandahar; ma non solo, anche Helmand e Nangarhar sono state teatro di questo cambio di strategia. Un’ulteriore evoluzione della tattica di combattimento, in senso più “convenzionale”, che si è affiancata – non sostituendola – a quella asimmetrica degli attacchi suicidi, degli ordigni esplosivi (IED), delle imboscate “mordi e fuggi” e degli attacchi green-on-blue/insider-threat (nel merito, si ricorda la recente azione che ha portato alla morte del generale statunitense Harold Greene e al ferimento dei suoi collaboratori). E, se da un lato l’attenzione mediatica e quella politica si sono concentrate su un processo elettorale estenuante, dall’altro i taliban hanno saputo approfittare della situazione andando a colpire in tutto il territorio, anche in quelle aree – come Herat, dove opera il contingente italiano – relativamente più tranquille; sebbene il sud-est continui ad essere il centro di gravità della strategia offensiva insurrezionale, così come è sempre stato. Un’offensiva che, con la fine del Ramadan (28 luglio), si è intensificata sul piano quantitativo, come dimostrato dagli attacchi di Sangin (provincia di Helmand) e Hesarak (provincia di Nangarhar); e ancora, l’attacco Logar del 17 agosto in cui una forza di oltre 700 taliban ha colpito un posto di controllo delle forze di sicurezza afghane. Queste azioni fanno parte di una serie di analoghi attacchi condotti nei giorni scorsi in altre province del paese: Helmand a sud, Nangarhar a est, Kunduz a nord, e ancora a Kunar. Qualcosa sta cambiando sul campo di battaglia, ma in effetti sarebbe più corretto dire qualcosa sta continuando a cambiare poiché i gruppi di opposizione armata fin dall’inizio, e imparando dagli insuccessi, hanno adeguato le proprie tattiche in base alle contromisure adottate dalle forze di sicurezza internazionali. E lo hanno fatto molto più velocemente di quanto non siano riuscite a farlo le truppe della Nato. Insomma, i taliban hanno dimostrato di essere capaci su tutti i livelli: Un copione che, sul piano tecnico-tattico, ricorda l’offensiva del 2006, quando unità consistenti di insorti colpivano obiettivi importanti come centri abitati o infrastrutture; ma allora c’erano i soldati delle forze internazionali a contrastare la minaccia, soldati che oggi sono stati sostituiti dalle esigue, mal equipaggiate e non adeguate truppe afghane. Oggi manca il sostegno delle truppe della Nato, in particolare il supporto aereo e quello logistico; questo limita fortemente la capacità operativa e di reazione delle forze di sicurezza afghane – in particolare quelle schierate nelle aree più isolate del paese – inducendo, al tempo stesso, le comunità periferiche ad avviare programmi di auto-difesa, spesso autonomi, che implicano la comparsa di nuovi attori armati che, anziché contenerlo, aumentano il livello di conflittualità. La Nato, come noto, trasformerà il suo impegno, da importante forza di “combattimento” a ridotto strumento di assistenza e addestramento per le forze di sicurezza afghane; un ruolo che sarà assunto dalla Nato non appena il successore di Karzai, entro il mese di settembre, avrà firmato l’accordo di sicurezza con gli Stati Uniti e con la Nato. Breve analisi conclusiva In un mondo sempre più interconnesso dove le conflittualità locali sono condizionate ed influenzate da spinte di natura globale, la violenza radicale che imperversa nel Vicino e Medio Oriente si sta espandendo a macchia d’olio; al di là dei risultati militari e delle manifestazioni violente e crudeli, ciò che deve preoccupare è la diffusione dell’ideologia, del suo veloce radicamento, del proselitismo di successo che anticipa, sì, l’accendersi della violenza ma che al contempo permane, indipendentemente dallo spostamento della linea del fronte di combattimento. E un Afghanistan non stabilizzato è una terra di facile conquista per le ideologie radicali; come la storia recente del paese insegna. I taliban di oggi non solo quelli di dieci o quindici anni fa, è vero. Ma potrebbero tornare ad esserlo in caso di contatto (reale o “virtuale”) con i gruppi radicali e fondamentalisti operativi in Iraq, o in Siria; anche in questo caso un copione già conosciuto. Un fondamentalismo di ritorno a cui, il prossimo governo afghano dovrà porre un argine attraverso una soluzione di compromesso che preveda quel necessario power sharing – formale o informale questo poco importa – che conceda anche ai taliban (le cui finalità sono – al momento – di natura “nazionale” e non globale), e agli altri importanti gruppi di opposizione armata, l’accesso a forme di potere reale: questa è una soluzione accettabile, oggi certamente necessaria.
articolo pubblicato su Osservatorio Strategico - CeMiSS (agosto 2014)
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