«La nostra guerra più lunga giungerà a una fine responsabile», ha dichiarato il Presidente Barack Obama durante il suo discorso di Natale, rinnovando ai suoi connazionali l’impegno di portare a una conclusione la guerra in Afghanistan. Cosa significhi precisamente l’espressione “una fine responsabile” e come questa sia realizzabile rimane poco chiaro.
I Talebani, dal canto loro, son stati veloci nel cogliere l’occasione e indicare il ritiro degli Stati Uniti come un segno di “sconfitta”. Tuttavia, due mesi dopo, il nuovo Segretario alla Difesa statunitense Ash Carter, durante la visita a Kabul il 21 febbraio 2014, ha segnalato un cambio di strategia. Ha suggerito, infatti, la possibilità di rallentare il ritmo con il quale ritirare le 10.000 truppe statunitensi rimaste in Afghanistan. La decisione di interrompere e ripensare la strategia americana, giunge vicino a importanti cambiamenti di politica estera in corso a Kabul e cerca di rafforzare un processo di negoziazioni in fase di stallo con i Talebani.
Considerando rapidamente il panorama politico ed economico, e il sistema legato alla sicurezza dell’Afghanistan ci si rende conto di quanto sia un contesto estremamente impegnativo e instabile. Sul fronte politico il Paese ha superato difficoltà notevoli per raggiungere il suo primo passaggio di potere attraverso il voto in modo pacifico. Tuttavia, la natura frazionata del verdetto politico ha, da un lato, dimostrato la capacità degli Afghani di rifiutare il compromesso governativo in condizioni difficili ma, dall’altro lato, ha portato a un esecutivo nettamente diviso sull’indirizzo politico ed è stato finora incapace di far nascere un governo pienamente funzionante. La paralisi dell’esecutivo ha colpito l’economia afghana, già sofferente a causa della contrazione dell’economia di guerra, con una crescita prevista per il 2015 dello zero per cento. Il modo in cui il governo di unità raggiunge un compromesso interno determinerà, a sua volta, la capacità a lungo termine di portare avanti una serie di iniziative politiche coraggiose attraverso il consenso politico. Ciò avrà anche un certo impatto morale sul campo di battaglia.
Da quando il governo Ghani è salito al potere ha tentato chiaramente di ridefinire l’agenda di politica estera di Kabul, cercando di assicurarsi forti legami con Pechino – sua prima meta come visita ufficiale – stretto alleato di Islamabad. Ghani ha proseguito recandosi in visita in Arabia Saudita e successivamente in Pakistan, mirando a consolidare il terreno per trovare un accordo che ponga termine al conflitto che da tempo affligge il Paese. Nettamente escluse dalla sua attuale agenda di politica estera sono invece le relazioni con Nuova Delhi. La scelta di andare in questa direzione risale alle prime fasi della sua presidenza quando, nell’ottobre 2014, in una mossa attentamente studiata per costruire dei rapporti con Rawalpindi, Ghani sospese un accordo con l’India sui rifornimenti di armi pesanti. A ciò fa seguito un gesto simbolico, ma potente di inviare in Pakistan, per la prima volta, sei ufficiali dell’esercito afghano per l’addestramento. Il Capo di Stato Maggiore del Pakistan, il Generale Raheel Sharif, ha visitato due volte la capitale afghana dopo l’attacco alla Scuola Pubblica Militare di Peshawar nel dicembre 2014, garantendo a Kabul di portare i Talebani al tavolo delle trattative in cambio di aiuto nel rintracciare i Tehrek-i-Taliban Pakistan che si trovano presumibilmente in Afghanistan. Ufficiosamente però si crede che gli appelli di Rawalpindi includano una serie di richieste più esaustive, collegate ad esempio a un drastico ridimensionamento della presenza indiana in Afghanistan, soprattutto lungo il confine tra Afghanistan e Pakistan, e a negare rifugio ai separatisti Beluci. In particolare, Kabul non ha neppure considerato la questione del rimpatrio forzato di migliaia di rifugiati afghani attuata dal Pakistan violando così il diritto internazionale dei rifugiati.
Questi riallineamenti politici, di fatto approvati da Washington, non sono passati inosservati nella capitale del maggior donatore regionale dell’Afghanistan, l’India. A Nuova Delhi le chiacchiere politiche riguardo alla campagna elettorale di Ghani che avrebbe, al secondo turno, ‘rubato le elezioni’ ad Abdullah Abdullah – in sintonia con Nuova Delhi – hanno, infatti, incrementato l’ansia. I riallineamenti politici del nuovo governo, che tentano in special modo di costruire dei legami con Rawalpindi, hanno causato agitazione nella capitale indiana. L’India realizza di avere bisogno di un accordo politico riguardo al conflitto in corso e al ruolo potenzialmente determinante che il Pakistan potrebbe giocare dati i suoi rapporti geografici, economici e culturali così come i suoi interessi riguardo all’esito. Tuttavia la questione su cui riflettere è se l’attuale livello di riallineamento politico sia sufficiente nel rendere realmente possibile un cambiamento di paradigma concreto, ma ciò è difficile da dire con certezza.
Da considerare è per esempio il fatto che, mentre il processo di ripresa dei negoziati è ancora all’inizio, la situazione sul campo indica che i Talebani continueranno a provare la loro forza sul terreno di scontro. È inoltre da notare che, da quando hanno preso il comando della sicurezza del paese, le ANSF sono state significativamente impegnate sul campo contro i Talebani, sostenute notevolmente dal supporto aereo della NATO. Questo è tra l’altro evidenziato, seppur in modo negativo, da un aumento allarmante del 22% del numero di vittime civili nel 2014 secondo la Missione di Assistenza ONU in Afghanistan (UNAMA), facendone l’anno con il maggior numero di morti civili dal 2009. Particolarmente degna di nota è l’osservazione dell’UNAMA secondo la quale «per la prima volta dal 2009, un maggior numero di civili afgani sono stati uccisi e feriti durante gli scontri sul campo piuttosto che da ordigni esplosivi improvvisati (IED) o da qualsiasi altra tattica». Questo a spiegazione del fatto che le operazioni di terra aumentino del 54%, facendone così la causa principale delle morti civili, con le forze di governo e i Talebani responsabili, rispettivamente, del 14% e del 72% di perdite civili. Le forze militari internazionali sono responsabili per il 2% delle vittime.
Anche il numero dei morti dell’ANSF è aumentato del 6,5% nel 2014 – una cifra vista come “insostenibilmente alta” nel lungo periodo. Abbastanza preoccupante, nonostante l’impennata nel numero di vittime sia civili che militari così come dei feriti, è la marcata diminuzione del 18% nel numero di pazienti che riescono ad accedere ai servizi medici, a causa del deterioramento del quadro della sicurezza. È aumentato anche il numero di sfollati interni a causa degli scontri durante il conflitto tra ANSF e Talebani. Le agenzie umanitarie si aspettano un leggero momento di sollievo per i civili durante il 2015 grazie alla somma record di 1,68 miliardi di dollari chiesta dal Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR) ai donatori – facendo così dell’Afganistan la sua più grande operazione dopo la Siria. Le cifre sopra citate da un lato indicano una crescente determinazione da parte dell’ANSF nell’affrontare i Talebani sul campo di battaglia, ma denotano anche altre due tendenze: primo, il conflitto sembra probabilmente intensificarsi ulteriormente nel 2015 dato che i Talebani proveranno presumibilmente ad usare a proprio vantaggio la forza sul campo di battaglia durante le trattative. A tal fine sembra che, senza che questo possa sorprendere, abbiano il pieno supporto dei loro sostenitori a Rawalpindi. La recente dichiarazione di Pervez Musharraf, fornisce un’apertura nella linea ufficiale di pensiero: «Il mondo deve rendersi conto che può non piacerci la faccia di Mullah Omar…ma così è la vita, così è l’Afghanistan».
Secondariamente, il basso numero di vittime attribuite alle forze militari internazionali, cifra che dovrebbe ulteriormente calare nel 2015, richiama l’attenzione sulla mutevole natura del conflitto. Come le forze internazionali si ritirano sempre più in un ruolo consultivo e di formazione, il conflitto porterà gli afghani a scontrarsi sempre più gli uni contro gli altri. Sullo sfondo di crescenti livelli di violenza c’è un nuovo elemento, ovvero gli attacchi terroristici attuati dall’ISIS. Il sequestro di trenta civili sciiti di etnia Hazara nel febbraio del 2015 a Zabul si pensa possa essere opera di alcuni membri affiliati all’ISIS. Poche settimane prima invece, il governo di Kabul annunciava l’uccisione del capo dell’ISIS, Mullah Abdul Rauf, in un’operazione nel Sud-Ovest dell’Afghanistan. Sia la NATO che gli USA hanno ammesso la presenza dell’ISIS nel Paese, motivo di preoccupazione nel lungo periodo. Mentre può essere prematuro immaginare i risultati dei negoziati, si nasconde il pericolo ISIS che funziona da potente calamita per frazionare i Talebani (o altri gruppi radicali attivi nella regione) per vanificare le trattative e continuare lo scontro sotto la bandiera dell’ISIS stessa.
La decisione degli Stati Uniti di rivedere il ritmo del ritiro delle truppe indica un elemento di preoccupazione per i crescenti livelli di violenza in Afghanistan. Spaventa questa zona geografica instabile che si estende dal Medio Oriente fino all’Asia Meridionale e c’è incertezza riguardo alla sorte dei negoziati dei Pakistani con i Talebani. Siccome il livello di violenza è aumentato e l’incertezza persiste, l’India guarda agli sviluppi della situazione con agitazione e disagio. Nel febbraio 2015 Nuova Delhi ha negato 100 milioni di dollari promessi nel 2013 destinati al progetto per la costruzione di collegamenti ferroviari, stradali e portuali tra Iran e Afghanistan. Tuttavia è improbabile che queste misure portino l’India molto lontano. Nuova Delhi ha bisogno di delineare nei dettagli una risposta alla volatile e rapidamente mutevole dinamica socio-politica dell’Afghanistan e della regione. Pur supportando giustamente l’idea di una risoluzione guidata dall’Afghanistan stesso ai continui conflitti, per avere effettivi risultati Nuova Delhi deve allargare la sua influenza politica in Afghanistan e approfittare dei recenti tentativi di riallacciamento dei legami tra Washington e Tehran, capitale del Paese che l’India descrive come “vicino senza confini”.
(Traduzione dall’inglese di Arianna Scotto)