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Africa, un amore di falliti

Creato il 29 aprile 2010 da Massmedili

Locandina Le rose del deserto4/5

Ancora un regalo delle celebrazioni per i 95 anni di Mario Monicelli: non una novità ma il prezzo adesso è abbordabile.

E vale la pena di abbordarlo questo film amarognolo ma delizioso che ci ricorda tanti altri capolavori del passato, perché, come ammette lo stesso Monicelli “tendo a fare sempre lo stesso film; c’è un gruppo di uomini, di italiani, totalmente impreparati a fare quello che fanno. Si trovano ad affrontare compiti enormemente più grandi di loro e di solito falliscono in maniera plateale, ma non per questo si danno per vinti. E questo sia che vogliano aprire una cassaforte come ne I soliti ignoti, che vogliano conquistare un castello come ne L’armata Brancaleone, che debbano combattere una guerra mondiale come ne La grande guerra o in questo Le rose del Deserto….”. E, ci permettiamo di aggiungere noi, come ne I compagni in Amici miei, o in quel bellissimo Cari fottutissimi amici con Villaggio manager di pugili di scarto nell’Italia di fine guerra che forse come atmosfere è quello che si avvicina di più a questa storia d’Africa.

Un’Africa, la Libia ricreata in Tunisia, che ha pochissimi punti di contatto con quella di Tempo di uccidere di Montaldo, l’altro film che ricorda la pagina scura del colonialismo nazionale, “Faccetta Nera”. Là c’era un’Abissinia tetra e malgrado (o forse proprio per) la derivazione da un libro di Ennio Flaiano, angosciosissima. Qui c’è disorientamento, stupore, inadeguatezza. Ma angoscia no,

Alla fine la storia ha poca importanza, come nella Storia con la S maiuscola l’avventura coloniale dell’Italietta fascista. I personaggi invece moltissima. Haber che fa il maggiore picchiatello innamorato di una lontana moglie fedifraga. Michele Placido che è un frate missionario dal cuore grande e le mani pesanti,quasi una versione barese di Don Camillo, grande interpretazione con una delle battute migliori del film (“Ma che sei il padre del ragazzo?” “Ma che dici? Io sò padre sì, ma domenicano”, “Ah, mi credevo che i domenicani portassero il saio bianco”, “Sì, vabbé, è zozzo, ma che vuol dire?”) che nel libro di Mario Tobino (“un altro viareggino come me”, spiega Monicelli) non c’era, ma nel film tiene insieme tutto. Giorgio Pasotti è il giovane tenente che incarna l’ingenuità e l’impreparazione per una guerra senza senso, a cui e a cui tocca l’altra battuta chiave del film: “T’hanno richiamato?”, “No, mi sono offerto volontario”, “Ah, sei fascista!”, “No, più che altro turista. Volevo vedere un po’di mondo”. 

Qualche slabbratura anacronistica (Haber dice ben due volte che gli italiani sono in Libia per portare la democrazia. Non credo che Mussolini sarebbe stato d’accordo), un ritratto impietoso della cialtronaggine nostrana e dalla dipendenza dai tedeschi (“Come si chiama ’sto generale che ha capito tutto?”, “Rimmel, mi pare”, “Andiamo bene, come quella roba che si danno le donne sugli occhi!”).  Ma la storia regge benissimo, dotata di una leggerezza di linguaggio e narrazione che non dimostra affatto i 91 anni che il regista aveva al momento della sua uscita, malgrado la piena coscienza che probabilmente “è l’ultimo film che mi fanno fare. A novant’anni non ti assicura più nessuno, e oggi se il regista non è assicurato la produzione non investe una lira in un film…”, come spiega nei contenuti specifici.


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