Mi permetto di riprendere questo commento di Gianfranco La Grassa che egli stesso ha inserito sulla sua pagina facebook, allegando in calce il pezzo del libro-intervista all’ex Ad della Fiat Cesare Romiti, estrapolato e commentato dal Corriere della Sera, di cui parla l’economista veneto. Chi conosce la teoria lagrassiana degli agenti strategici non sarà affatto sorpreso dall’affermazione di Romiti secondo cui il capo del Lingotto non si interessava, se non in minima parte, di beghe industriali quanto piuttosto di strategie “politiche”, sia nazionali che internazionali, tanto per garantire la proiezione finanziaria della sua azienda che per entrare di diritto nel gotha degli uomini più potenti d’Italia e del mondo, al fine di influenzare governi e apparati dello Stato. Ai puristi delle leggi del libero mercato, delle logiche strettamente mercantili dominate dalle regole sempiterne ed immutabili della domanda e dell’offerta, dell’efficienza e dell’efficacia ecc. ecc. questa dichiarazione suonerà strana e persino blasfema. I professoroni che ci danno lezioni di economica dalle università, dai giornali ed ora anche dall’Esecutivo, insegnando astrusamente e con concetti forbiti quello che nella realtà si verifica solo ad un livello superficiale, avranno materia per capire, ma ne dubitiamo fortemente, quanto le loro misure di ripristino dei conti pubblici e di recupero di concorrenzialità, magari riformando il mercato del lavoro e intervendo sulla spesa pubblica, siano inutili senza una rimonta nella sovranità nazionale, in questa fase di accentuato multipolarismo. Se manca una classe dirigente con capacità politiche strategiche lo Stato prima deperisce e poi perisce, come purtroppo sta accadendo all’Italia.
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Il denaro (e lo capì anche uno scrittore, Zola, nel romanzo con quel titolo), è uno strumento; come lo è la bomba atomica o le portaerei o l’aviazione; come lo fu la cavalleria pesante con cavalieri armati di corazza, lancia, ecc., come lo fu la fanteria leggera inglese considerata artefice della vittoria inglese ad Azincourt nel 1415. Ma fu Enrico V, con le sue strategie, la disposizione delle forze in campo (di gran lunga inferiori di numero rispetto a quelle francesi), i movimenti fatti fare alle sue truppe – approfittando anche della pioggia e del fango che rendeva assai poco mobili i cavalieri francesi – a determinare la vittoria, che fu clamorosa.
Spero venga postato un pezzo dello scritto recente di Romiti, in cui questi chiarisce che Agnelli non si interessava per nulla della sua azienda, lasciata (giustamente) alla cura dei manager, che la dirigevano (anch’essi giustamente, dati i loro specifici compiti) secondo il principio del “minimo mezzo”, cardine dell’economia neoclassica (e della condotta detta “razionale” di quel modello di homo oeconomicus che fu Robinson Crusoe). Agnelli si dedicò – secondo me non con grandissime capacità (tutt’altro!) – alle strategie, soprattutto in campo internazionale, dove cercava alleanze, spesso subordinandosi pure a centri strategici “stranieri” (Usa di fatto). Questo, Romiti non lo dice. Nemmeno dice che Agnelli privilegiò la strategia di “gruppo” rispetto a quella dell’industria prettamente automobilistica; in ciò determinando la vittoria “manageriale” proprio di Romiti rispetto all’”industriale” Ghidella. Nel gruppo, non a caso, si dette particolare attenzione e cura alla Ifi-Ifil (la parte finanziaria), ponendo le basi per il successivo grave arretramento dell’azienda sul piano industriale. E malgrado la credenza contraria, alimentata da giornalisti (ed economisti) servi, la stessa cosa si sta ripetendo con Marchionne; e mi sembra che, anche in tal caso, si stia arrivando alla resa dei conti. L’operazione Chrysler, finanziata di fatto dagli Usa, ha convinto gli ingenui che la Fiat s’è impadronita dell’azienda americana, mentre è la strategia americana che ha “catturato” per i suoi fini la Fiat, fornendole i mezzi necessari all’acquisto (ma senza che ciò appaia mai pubblicamente e ufficialmente). Il privilegiare l’aspetto finanziario rispetto all’industriale è comunque una scelta strategica, non dipende dall’intrinseca “bontà di comando” del denaro. Tuttavia, sempre si manifesta la miopia dell’operazione prevalentemente finanziaria e incapace di affrontare il tema dell’industria, cuore dell’economia “reale”. Dopo il crack borsistico del ’29, le prime misure furono di fatto finanziarie. La crisi divenne terribile e nel ’31-’32 si fece la fame, la disoccupazione raggiunse oltre un terzo della forza lavoro, il reddito reale crollò. Il New Deal (che comunque attenuò ma non risolse la crisi, superata solo con la guerra mondiale) non fu semplice operazione finanziaria. Si stampò moneta al fine di metterla in circolazione tramite la spesa pubblica (in deficit di bilancio). Ma questa manovra partiva dal presupposto della presenza di imprese industriali chiuse e di mano d’opera disoccupata, fenomeni giudicati effetto della carenza di domanda.
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Sergio Bocconi per il “Corriere della Sera“
Cesare Romiti Umberto e Gianni Agnelli
I libri-intervista spesso raccontano le vite degli altri, più che del protagonista. E anche in questo caso Cesare Romiti, rispondendo alle domande di Paolo Madron, narra, svela, cuce, ammicca, irride, critica e talvolta elogia, costruisce un ritratto individuale e collettivo della élite che con lui ha rappresentato e rappresenta la finanza e l’industria del nostro Paese. Personaggi e interpreti della Storia segreta del capitalismo italiano (Longanesi, pagine 288, 14,90, prefazione di Ferruccio de Bortoli) sono 210, fra imprenditori, banchieri, politici, giornalisti e anche qualche star dello spettacolo.
Ma le figure chiave sono Enrico Cuccia e Giovanni Agnelli. Non poteva essere altrimenti, così come ritrovare ai primi posti del cast Carlo De Benedetti, al quale lo stesso Romiti ha chiesto un testo introduttivo al libro, cogliendolo di sorpresa: poi però fra i «due nemici necessari», definizione dell’ex top manager della Fiat, l’accordo alla fine non si trova e lo scritto (pubblicato qui sotto) viene rifiutato. Del resto, come conclude l’Ingegnere, «la storia la si racconta, non la si cambia».
Ventiquattro anni dopo il suo primo libro-intervista ( Questi anni alla Fiat, con Giampaolo Pansa), Romiti riserva questa volta tanto spazio alle storie degli altri, viste da così vicino che il binocolo della memoria e della interpretazione riesce a riservare non pochi inediti.
Lui sa di avere l’esperienza e l’età per concedersi talune «rivelazioni», tanto è vero che nel suo testo conclusivo, nel quale invita «coloro che oggi hanno 20, 30, 40 anni» a «fare una rivoluzione pacifica» e a «creare una nuova classe dirigente», dice di essersi ispirato per l’intervista a Le confessioni di un italiano di Ippolito Nievo: «Sono le memorie fantastiche di ottantenne immaginario. Io invece, veramente ottuagenario, posso scrivere un libro frutto di alcune mie reali memorie».
Così rispondendo a Madron, fondatore e direttore del quotidiano online «Lettera43», Romiti coglie diverse occasioni per affidargli episodi che prima non ha «mai raccontato». Uno dei quali riguarda Silvio Berlusconi, in politica secondo lui sottovalutato da Agnelli («era convinto che avrebbe avuto una vita effimera, che non sarebbe durato molto»), ma imprenditore il cui fiuto lo porta a fare un’offerta a Romiti mentre è ancora in Fiat: «Voleva che andassi a dirigere il suo gruppo».
Romiti rifiuta. Ha «in mente di fare altro» e poi aggiunge: «Non credo che con un padrone accentratore come Berlusconi avrei avuto grandi margini di manovra». Agnelli invece «voleva occuparsi solo delle strategie».
Verso Giovanni Agnelli Romiti descrive una «fedeltà assoluta». Che si manifesta in particolare anche ai tempi di Tangentopoli: «Io volevo innanzitutto difendere l’azienda e naturalmente l’Avvocato». Rivela quindi che sono stati i magistrati del pool di Mani Pulite a «suggerirgli» di scrivere la lettera-articolo sul «Corriere della Sera» nella quale il 24 aprile 1993 si rivolge agli industriali invitandoli a collaborare con i giudici. Lealtà che ritorna fra l’altro nella occasione della nomina di John Elkann a «erede» dell’Avvocato in Fiat.
Umberto Agnelli, racconta, voleva per la designazione suo figlio Andrea e nel corso del consiglio dell’Accomandita, la «cassaforte» della famiglia, dice: «Gianni, tu ci hai convocato oggi per decidere la designazione di John. Voglio venga messo agli atti che è esclusivamente una tua decisione». Romiti ribatte: «Io dissi che era una convinzione di tutti i presenti. Umberto replicò: “No, caro Romiti, è una decisione dell’Avvocato”». Una sola cosa di Giovanni Agnelli, confessa Romiti, «un po’» lo aveva infastidito: l’attrazione che su di lui aveva esercitato De Benedetti per il suo carisma.
Ed è Cuccia, con il suo carisma «che resta il migliore esempio della differenza fra autorevolezza e autoritarismo», ad attrarre Romiti dal loro primo incontro, «intorno al 1968». Ne descrive «la superiorità intellettuale e morale», ma lo definisce anche «machiavellico» e con una «proverbiale abilità nell’usare le persone senza guardare in faccia a nessuno». Tanto è vero per esempio che a Salvatore Ligresti non l’unisce amicizia ma «solo opportunismo. Che venne fuori ai tempi della privatizzazione di Mediobanca: l’operazione passò solo grazie ai buoni uffici di Ligresti, che aveva ottimi rapporti con Bettino Craxi».
«Tutto per il bene della sua banca che considerava perno e strumento della ricostruzione del capitalismo italiano: voglio ricordare che Cuccia è morto povero». Romiti difende il banchiere anche sull’episodio che gli è costato più critiche, il mancato avviso a Giorgio Ambrosoli che Michele Sindona lo voleva uccidere.
Romiti ripete che il banchiere «disse al suo avvocato di avvertire i magistrati». Ma su queste vicende tragiche un’altra è la rivelazione. Il manager racconta che Cuccia gli ha descritto un suo incontro con Giulio Andreotti: «Parlarono del più e del meno, poi a bruciapelo Andreotti gli chiese: “Ma lei crede veramente che io sia corresponsabile dell’uccisione di Ambrosoli?” Diciamo che dopo la risposta di Cuccia il colloquio terminò».
Però non il fondatore di Mediobanca è stato, per Romiti, il miglior banchiere italiano, bensì Raffaele Mattioli, presidente di Comit. E a Madron che gli cita Giovanni Bazoli e Cesare Geronzi, risponde così: «Bazoli è un avvocato che ha il grandissimo merito di aver salvato il Banco Ambrosiano. Ma non ha mai gestito la banca operativamente. E Geronzi nemmeno». Qui torna la «lente» di Cuccia, che «fu molto amareggiato quando vide che il marchio storico» della Comit «era scomparso dalla scena finanziaria». E che, sulla proposta di fondere Comit e Banca di Roma, poi non andata in porto «mi disse che non sapeva cosa ci fosse veramente dentro la Banca di Roma, e che temeva le conseguenze di quel matrimonio».