Sin dagli albori della civiltà, gli esseri umani hanno subito una grande attrazione nei confronti dell’arte, in generale, e della scrittura, in particolare. Ed è forse questa antica predilezione a spiegare l’interessante tensione che le nuove generazioni dimostrano nei confronti della narrativa. Della scrittura, per la precisione. Colti da questa urgenza, tantissimi scrivono, e, completato il proprio lavoro, come fosse un figlio sulla soglia della maturità, lasciano che prenda la via della vita, inviandolo alle case editrici.
I consigli su come redigere l’email o la lettera di presentazione, la sinossi, l’impaginazione, il cordiale saluto in basso e staccato dal resto del messaggio, sono un’infestazione nello spazio web. Anche interrogativi sulla rilegatura del dattiloscritto ricevono risposte. Una di queste, per esempio, potrebbe far sorgere diversi dubbi sull’autorevolezza dell’autore: «io ti dico ke è meglio scriverli al pc e poi stamparli su fogli normali avanti e indieto poi fare in modo ke sono in odine e bloccarli con quei cosi ..per il mantenimento..kosì kredo poi nn so..».
In tutta l’abbondanza di come fare e come non fare, da nessuna parte si pone l’accento su una questione fondamentale: agli editori, il tipo di personalità dello scrittore, o futuro tale, importa. L’arroganza, la superbia, la polemica, le informazioni frammentarie sulla casa editrice con la quale s’intende pubblicare, il modo di porsi privo di qualsiasi senso d’umiltà, sono tutti elementi che giocano a sfavore dell’aspirante scrittore. Qualcuno potrebbe obiettare, sostenendo che non occorre castrarsi e che la valutazione va fatta sul testo, non sulla persona. Eppure, volenti o nolenti, affinché qualcuno investa i propri soldi sul lavoro di qualcun altro, serve ci sia anche il feeling.
Il saggio è colui che sa di non sapere, insegnava Socrate. Una verità valida, da oltre duemila anni, da non scordare in nessuna circostanza.
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