Il surplus agricolo è l’origine e la condizione necessaria della civiltà. Se non si fosse mai reso possibile per l’essere umano produrre più cibo di quanto ne serviva per il proprio sostentamento, nessuno avrebbe mai avuto il tempo per dedicarsi ad altre attività. Non esisterebbe quindi tutto quello che oggi diamo per scontato, che è troppo lungo per elencarlo. Non ci sarebbero artisti, artigiani, medici, amministratori, inventori, esploratori, scienziati, e chissà quali altre categorie di persone che non esistono ancora. Alla base di tutto quello che facciamo, dal mangiare a ogni cosa che non è mangiare, c’è la possibilità per l’essere umano di estrarre dalla terra e dall’acqua quello che gli serve per vivere e qualcosa in più da dare agli altri in cambio di ciò in cui gli altri si specializzano.
E come ha ringraziato l’umanità i contadini, e i pastori, gli allevatori, i cacciatori, i pescatori? Per gran parte della storia, chi di mestiere si assume l’onere e la fatica immensa di produrre materialmente cibo per gli altri esseri umani è stato sfruttato, ridicolizzato, emarginato. I produttori di cibo hanno dovuto lavorare la terra per darne il frutto a chi la possedeva ma non faceva nulla; sono stati considerati ignoranti quando possedevano il sapere più fondamentale, e hanno persino subito carestie a causa delle politiche disastrose di regimi troppo centralizzati e ideologizzati. È successo anche il contrario, come nella politica agricola comune europea, con un groviglio di quote, incentivi, sovvenzioni, causa di una quantità infinita di danni e a mio modesto avviso completamente da abolire.
Nella nostra epoca, ai produttori di cibo tocca la beffa finale: l’essersi ridotti a un’esigua minoranza lontana dalla vita della maggior parte delle altre persone che da loro dipendono. Siamo diventati talmente bravi a produrre surplus che ci siamo allontanati dall’attività fondamentale della sopravvivenza al punto di non conoscerla nemmeno nel suo prodotto. Non conosciamo i frutti e le verdure di stagione; i bambini crescono pensando che il cibo venga dal supermercato e scommetto che la maggioranza degli adulti non ha idea di come si produce un formaggio (il che spiegherebbe anche questo gran proliferare di “vegetariani”).
Io sto cercando di recuperare il rapporto con chi produce il cibo che mangio. Voglio conoscere il più possibile il modo in cui il cibo è prodotto, sia per motivi di ambientalismo, sia perché è affascinante, sia per essere il più possibile autosufficiente nella crisi. Voglio chiarire velocemente una cosa: l’autosufficienza totale non è possibile. Il contadino più eclettico deve comunque barattare o comprare un’infinità di cose – forse è stato così maltrattato nella storia anche perché la civiltà che lui ha contribuito a creare ha generato mille nuovi bisogni che lui da solo non poteva soddisfare, e quindi non gli ha permesso di essere indipendente.
È molto triste non sapere come viene prodotto il cibo. Innanzitutto: è immorale. Non esiste attività più devastante per tutto ciò che non è umano quanto l’agricoltura. L’agricoltura ha distrutto l’ambiente e poi è diventata così potente ed efficiente da distruggere anche se stessa. Le ultime tecnologie hanno prodotto quantità di cibo sufficienti a sostenere una popolazione cresciuta a ritmi senza precedenti, ma facendolo hanno impoverito i suoli, svuotato le falde, distrutto la biodiversità, e infine cacciato e ridotto alla fame proprio i contadini, eterne vittime del loro dono all’umanità. Stiamo già vedendo i primi segnali dell’incapacità di questo tipo di agricoltura non solo di continuare a fare quello per cui è stata creata, ma anche di permettere il ritorno dell’agricoltura di prima – tanta è la distruzione. Il trionfo dell’agricoltura e il suo crollo sono due fasi dello stesso movimento.
È immorale non sapere come viene prodotto il cibo anche perché rende ciechi a quel crimine che è l’allevamento intensivo, che infligge sofferenze ininterrotte dalla nascita fino alla morte a creature i cui diritti non riusciamo ancora a stabilire perché loro non possono aiutarci a farlo, ma sicuramente senzienti.
È anche un gran peccato: il cibo può essere molto più buono, più sano, più affascinante e più vario quando si riesce a risalire fino alle sue origini e a procacciarsene di propria scelta.
Infine, chi produce cibo nel rispetto dell’ambiente, degli animali e di chi lo mangerà fa un atto di tale valore che merita attenzione e riconoscimento.
Nelle ultime settimane ho conosciuto un esempio per i nostri canoni estremo di produzione di cibo sano. Ho vissuto in un’azienda biologica e biodinamica finalizzata prevalentemente all’autoconsumo e al baratto. Ho dato una mano in cambio di vitto, alloggio, e spiegazioni su quello che bisogna fare. Questa è la prima cosa interessante: la volontarietà dello scambio. È molto difficile stabilire cosa sia dovuto, in condizioni come queste. Quando è l’iniziativa di ciascuno a determinare quanto si dà e quanto si riceve, si scambiano anche cose non misurabili, e i ritmi di lavoro non sono imposti, sta alla coscienza di ciascuno comportarsi correttamente e al tempo stesso non strafare. Non c’è contratto, non c’è misura, non c’è nemmeno un previo accordo preciso – non ci sono cioè tutti i margini della vita moderna che ti permettono di sapere cosa fare e rivalerti in caso di torto. Eppure in molti casi funziona. Nel caso che ho conosciuto io sicuramente ha funzionato molto bene, almeno per quanto mi riguarda e spero anche per chi mi ha ospitato; ovviamente non sempre è così.
La scoperta principale, ma ne avevo già avuto sentore con poche piante sul terrazzo, è quanto difficile sia estrarre il cibo dalla terra. Tutti voi mangiate, altrimenti sareste morti. Ma quanti di voi non considerano il cibo un gesto scontato, garantito dal denaro, e il guadagno di questo denaro, invece, la questione importante? Tanto lontana è la nostra civiltà da ciò che l’ha resa possibile che non si misurano né il valore né la sopravvivenza in rapporto a ciò che li garantiscono, cioè l’effettiva produzione di cibo e altri beni, ma in base a una serie complessa di parametri arbitrari quali ‘stipendio’, ‘tasse’, ‘inflazione’, ‘crescita’. Non esiste, nei discorsi economici, nel dibattito politico, nemmeno nella nostra vita di tutti i giorni, la benché minima consapevolezza di quanto sia faticoso far sì che l’umanità non crepi di fame. Forse perché il petrolio ha ridotto di molto questa fatica – ma l’era del petrolio sta volgendo al termine e quello che non sappiamo potrebbe rivelarsi una brutta sorpresa.
Il cibo biologico, quello che protegge la terra dall’usura e la preserva per il futuro, quello che limita il potere distruttivo dell’agricoltura e cerca di mostrare rispetto nei confronti degli esseri viventi che la rendono possibile, richiede più lavoro umano per rese più ridotte, almeno per ora, e quindi una grande fatica.
Gli animali d’allevamento mangiano e bevono in continuazione; la stalla va visitata almeno due volte al giorno, la mattina e la sera. Anche se liberi, questi animali hanno bisogno di cibo, protezione, cure; devono essere spostati, controllati, sfamati, e infine munti. La terra va arata, seminata, concimata; bisogna raccogliere il cibo, lavorarlo, trasportarlo. Per non parlare della legna. Si può essere contadini senza legna, ma questo comporta un considerevole spreco. Dov’ero io pare che i contadini facciano senza troppi problemi roghi di ramaglie e materiali di scarto che avanzano dalla pulizia di boschi e campi, mentre in un comune vicino una centrale a biomasse che si potrebbe alimentare con questi scarti brucia invece materiali importati. Anche questo sarebbe da approfondire.
Naturalmente, sono molte le persone per cui essere contadini, pastori o allevatori è una gioia e non una fatica. Ma quante sono, realmente oppure potenzialmente, queste persone? Quanti vogliono veramente tornare alla terra? E quanti vogliono tornare alla terra sapendo che non potranno più contare sull’energia a basso costo?
Io credo di essere tra loro, ma in questi giorni mi sto interrogando anche su questo punto: quanto sono disposta a sacrificarmi? Le piante richiedono molte cure, ma avere animali è come fare figli che non crescono mai. Sono pronta?
E il modello non è il pensionato che fa l’orto per divertimento, ma ha una pensione che gli garantisce tutto il resto. Il modello è qualcosa di molto più faticoso e molto più imprescindibile, che non si può mai mollare.
La mia sensazione è che ci sia una nuova élite che comprende i più colti e informati e che aspira a fuggire dall’ufficio per tornare alla terra, facendo il percorso inverso rispetto a quello compiuto dalle generazioni che la precedono e che in quell’ufficio l’hanno spinta. E chi ha questo genere di consapevolezza spesso sceglie l’agricoltura biologica.
Ma non basta, anzi. Mi sto rendendo conto che questo ritorno alla terra, ammesso e non concesso che si stia verificando, rischia di causare nuovi problemi.
Chi produce cibo ha bisogno di spazio attorno a sé, o ben che vada di spazio poco distante e mezzi per raggiungerlo. Io rimango convinta del fatto che l’automobile sia il grande male della nostra società. Però mi rendo anche conto che molti contadini non concepiscono di vivere senza motori, perché questo aumenterebbe la loro fatica fino a una soglia non più sopportabile. E, anche se lo facessero, avrebbero bisogno di animali per trainare carri e aratri, e questi animali dovrebbero a loro volta essere sfamati e avere spazi per sé. Inoltre gli zoccoli degli animali, se in numero eccessivo, danneggiano il terreno, mentre gli alberi lo proteggono.
Se vogliamo tornare a un’agricoltura più sana per noi e per l’ambiente, all’autoproduzione almeno parziale, a un rapporto con la natura, e al tempo stesso evitare che i problemi che abbiamo cacciato dalla porta rientrino dalla finestra, dobbiamo per forza, non se ne esce, ridurre il nostro numero. Non sono io che sono fissata. Pensate ad esempio a questo: ci viene detto continuamente che le città sono più efficienti, che consumano meno risorse pro capite, addensano e ottimizzano. Ma le città sono luoghi da cui poi le persone vogliono fuggire verso la natura; ci separano dalla conoscenza dell’impatto delle nostre azioni e ci costringono a livelli di affollamento difficilmente sopportabili. Inoltre è più difficile, se non si produce cibo, ridurre gli imballaggi e riutilizzare gli scarti. Mi sembra anche vero, però, che molte delle persone che hanno campi e orti e producono cibo su piccola scala si trovino spesso con quantità che non riescono a smaltire nemmeno regalandole, e quindi ne buttano via o lo lasciano appassire nel campo. Per questo sono favorevole a una tassazione della proprietà che ne consideri l’estensione più che il pregio, così da responsabilizzare ciascuno sullo spazio che sottrae alla collettività.
La vita con molto spazio attorno a noi e la possibilità di coltivarlo non è necessariamente più ecologica, se ci impone di estendere la rete stradale e vivere con un’automobile, allungare gli allacciamenti a rete fognaria, elettrica, telefonica; occupare più suolo, illuminare più cielo ed estendere ulteriormente la presenza umana. Vivere autonomamente producendo il proprio cibo richiede spazio e risorse anche per l’immagazzinamento delle scorte e per i macchinari che a quel punto servono, per quanto semplici; si può pensare di condividerli ma, di nuovo, trasportarli senza motori diventa complicato.
Un buon modello è quello, credo, delle vecchie latterie sociali, in cui ciascun socio conferiva il proprio latte per averne in cambio una quota di formaggio. Così non è necessario che ognuno abbia stanze e apparecchiature dove fare formaggio; si riduce il lavoro e il consumo di suolo. Il mulino svolgeva la stessa funzione, e così il frantoio. Il modello dell’azienda agricola secondo me andrebbe affiancato ad alcune strutture comunitarie, come anche delle lavatrici comuni, per non essere troppo dispendioso.
Al momento, comunque, mi sembra che di questi sistemi intermedi sia rimasta poca traccia, schiacciati come sono tra un estremo e l’altro. Ma un mondo di città e allevamenti intensivi è un inferno; un mondo di case circondate dall’orto è insostenibile. Inoltre, tendenzialmente le persone fanno più figli in campagna che in città, per vari motivi su cui non mi dilungo. E quando le montagne vengono abbandonate ritornano animali scomparsi, che difficilmente possono convivere con noi. Se torniamo noi, si ripresenta il problema della competizione.
Naturalmente non è necessario né desiderabile che tutti vivano nello stesso modo; ma non si può nemmeno aspettare che ognuno segua la propria inclinazione, tra l’altro socialmente indotta, senza porsi problemi di consumo di risorse e di convivenza. Chi alleva animali in prossimità di altre persone, cioè praticamente tutti, teme che le proteste dei vicini lo costringano a rinchiudere le bestie o a rinunciarvi proprio. Non ho approfondito la questione, ma mi pare di capire che la legge penda dalla parte di chi si lamenta. Ovviamente io trovo l’odore di stalla piacevole e quello di smog insopportabile, ma il mondo va in un altro modo. E comunque va fatta una nuova distinzione non scontata tra la puzza di un allevamento intensivo e quella di una piccola stalla.
Tutto ciò che vedo conferma la mia convinzione fondamentale che la cosa più importante da fare per l’ambiente, in questo momento storico, è ridurre il nostro numero. Per disinnescare quindi il conflitto tra chi vuole vivere più a contatto con la natura e chi preferisce la città bisogna che ci siano abbastanza spazi aperti per i primi e abbastanza spazi agricoli intorno alle città per soddisfare le esigenze dei secondi. Riducendo il nostro numero potremmo ridurre l’impatto complessivo e ampliare un po’ i margini entro cui compiere le nostre scelte. Per ora l’alternativa sembra essere tra l’efficienza massima e devastante della vita addensata e l’ecologia parziale della vita diffusa.
Il Friuli Venezia Giulia ha una densità abitativa inferiore alla media nazionale, eppure mi appare comunque sovrappopolato: è quasi impossibile trovare un posto da cui non si scorgano case, strade o edifici; la pianura e la collina sono una colata di cemento e la regione è interamente antropizzata. Caprioli e cinghiali non hanno predatori, salvo le automobili, e sono diventati infestanti; in pianura non è rimasto un solo bosco, in montagna il bosco è tornato solo perché se ne sono andate le persone ma in compenso la Carnia e l’Alto Friuli sono pieni di zone industriali, strade, turisti in automobile e aspiranti contadini che devono abbattere i suddetti boschi per vivere di agricoltura. Tutto questo non sarebbe un problema così grosso se fossimo di meno. Come si inizia finalmente a dire, non ci si può definire ambientalisti se non ci si preoccupa della sovrappopolazione.
Persino da dove sono appena stata mi rendevo conto di quanto sia devastante l’impatto umano. Mi trovavo in un posto molto bello della Carnia, vicino all’Austria, in una casa da cui si gode una vista spettacolare dell’intera valle. Ci sono boschi e pascoli, ma anche tante costruzioni, che occupano forse la maggior parte del campo visivo, compresa una zona industriale completamente inutile e dei capannoni che rovinano la visuale. Di giorno si sentono cantare gli uccelli, ma anche decespugliatori, motociclette e motoseghe. Tutti si muovono in automobile.
Eppure lassù è molto meglio che a Udine. È strano, perché la vista da questa casa mi faceva pensare contemporaneamente due cose: una è che ero fuori dalla città, e l’altra è che la città era risalita fin qui.
Il paradosso della Carnia è questo: quando era popolosa, era sovrappopolata, e i suoi abitanti emigravano per forza; ora che si piange lo spopolamento, chi resta vuole le comodità che hanno gli altri, vuole spostarsi e vuole essere raggiunto. Non so cosa sia peggio.
C’è gente, come me, che vorrebbe fuggire dalla città e venire in un posto come questo, ma se lo facessimo in tanti non rimarrebbe in piedi un solo albero di quelli che sono ricresciuti quando la popolazione è calata.
Non sto dicendo che se diminuisce il nostro numero poi possiamo inquinare quanto ci pare. Solo che mi sembra che abbiamo occupato così tanto spazio che non ne rimane proprio per condurre una vita più naturale senza distruggere quel poco di natura che rimane.
Inoltre, se vogliamo produrre cibo in maniera più ecologica dovremo, anche qui, riprenderci dei margini. È molto rischioso stare sospesi tra l’inizio della fine dell’agricoltura industriale e il recupero di quella biologica senza avere al tempo stesso del terreno in più a disposizione. Si rischia di scoprire che abbiamo distrutto quello che abbiamo coltivato e che coltivando diversamente non produciamo abbastanza. Questo senza neanche contare il fatto che ridurre l’intero pianeta ad azienda agricola, biologica o no, è una violenza insopportabile contro le altre specie e per la nostra o un suicidio o la condanna a una vita triste.
Da questa esperienza di agricoltura biologica, per quanto limitata, mi sembra di aver tratto tra le tante cose anche la conferma di come l’ambientalismo non si possa fare a compartimenti stagni. C’è come si coltiva il cibo ma anche come ci si muove; come si produce energia; quanto si viaggia e quanto ci si riproduce. Senza coordinazione non se ne esce.
Persino prendere della terra, coltivarla senza buttarci veleni e mangiarne i frutti, puntando alla condivisione e all’autosufficienza, di per sé non basta. È comunque una grande lezione.
Io cerco di non dare mai consigli generici, e quindi non consiglierò di andare a lavorare in un’azienda biologica. Di sicuro però mi piacerebbe che più persone provassero questo tipo di fatica – per quanto gioiosa, una fatica – e cioè la fatica di trarre quello che ci serve non dalla trasformazione del nostro singolo lavoro in denaro e dal mercanteggiare con altri homo sapiens, ma dalla stessa materia e da quella cosa misteriosa che è la vita non umana.