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Agricoltura in ginocchio sul cemento

Creato il 19 maggio 2013 da Albertocapece

agricolturaAnna Lombroso per il Simplicissimus

Eccome se me li ricordo quei pomeriggi di agosto in quelle case di vacanza, arredate con un bric à brac di oggetti e mobili come da un rigattiere e le tappezzerie scolorite, a guardar fuori la pioggia implacabile e la nuvola sul monte “che quando ha il cappello o fa brutto oppur fa bello”, intrisi da quella noia penetrante di quando si è ragazzi. Me ne ricordo qualcuno di quei pomeriggi a Asiago quando mio papà, arrivato per un paio di giorni, subito afflitto dalla pressione alta appena si saliva un po’ più su, senza poter fare quelle passeggiate con la borraccetta, che gli sembrava scandaloso andare a bere lo skiwasser o la cioccolata in rifugio, e che d’improvviso diceva: basta stare qua a guardare la pioggia, mettiamo la giacca a vento e andiamo a trovare il Mario. Il Mario era Rigoni Stern, con quella faccia che sembrava una statua lignea intagliata, che declamava di terra, di torrenti, di alberi, di guerre, di trincee e mio papà gli dava sorridendo sulla voce: sei più retorico di Pertini, diceva. Ma poi si incantava quando appunto “il Mario” sosteneva che c’era un industria che andava avanti a produrre sempre, non c’era crisi per lei, e era il bosco, che lo tagliavi, e lui si rifaceva, lo bruciavi e rinasceva.

Sarà per paura della retorica, aborrita più del crimine, più della menzogna, più dell’oltraggio, che i boschi li abbattono senza lasciarli risorgere, che in una smania dissipata di una modernità distruttiva, si sono prodotte devastazioni irreversibili e irriducibili. Che è stata dichiarata guerra ai boschi, al paesaggio, al territorio, ma a differenza di quello che è successo con quelle provocate per ricostruire, in questo caso c’è solo distruzione, che ormai non ci sono più nemmeno i quattrini per cementificare e siamo ridotti come quei proprietari di uno stabile malandato che, nel migliore dei casi, per vendere l’appartamento, passa una mano di bianco sulle crepe o mette il cartello”lavori in corso”.
In questi giorni piove, tira un gran vento, sembra non finire mai l’inverno del nostro scontento. Ma se ne parla poco, pare che si siano inceppati definitivamente, che non abbiano più nemmeno il coraggio di balbettare che sono eventi naturali: da troppi anni sappiamo che non c’è nulla di naturale nel sacco del territorio, nelle opere rinviate in nome di altre priorità, nella cementificazione e soprattutto nell’alimentazione forzata di condizioni di crisi in modo che sconfinino in quelle provvidenziali e profittevoli emergenze che legittimano leggi speciali, commissari straordinari, spese incontrollate, gestioni autoritarie e opache.

Così si preferiscono il silenzio e l’assenza, in modo che qualcuno possa dire che non è importante andare in piazza, nemmeno forse nei luoghi dei disastri, meno che mai in quelli dei terremoti – domani è un anno da quello emiliano – se si è affaccendati a mettere riparo, a risanare, a fronteggiare, a contrastare.
Il bello è che l’unico contrasto è contro il bene comune e l’interesse generale: se ne stanno chiusi nelle loro enclave, separati e sprezzanti sentendosi al sicuro grazie alla remota distanza dal noi e dalla realtà.

Eh si, è piovuto in questi giorni, in posti nei quali piove sempre, sembra, e piove sul bagnato e i torrenti esondano, non ci sono più i boschi del Mario a fare da barriera, gli argini sono malandati, il terreno frana, come sta franando tutto il Paese in una miserevole dimenticanza di essere stato il Bel Paese. «Troppe case, strade e capannoni – denuncia Coldiretti Lombardia – hanno ridotto la capacità di drenare l’acqua in eccesso soprattutto nei periodi di maltempo». È una guerra diversa da quella del Mario: sott’acqua con il mais, la frutta e il riso, finiscono i redditi degli agricoltori, ridotti in dieci anni del 25%, «provati» da costi alle stelle e da prezzi che continuano a scendere fino al meno sei per cento. E non è mica la guerra della natura matrigna, di un andamento meteorologico imprevedibile: ormai il cambiamento climatico è prevedibilissimo, preventivabili i danni mille e mille volte più costosi della prevenzione, gli eventi estremi più frequenti e sicuri dell’avvicendarsi delle stagioni.

Una indagine recente non di Petrini o di Legambiente, ma proprio di un Ministero, quello delle risorse agricole, dal quale è sortito un topolino rimesso al suo posto nella montagna, un ddl di difesa del territorio, ha calcolato in dieci anni una perdita di 5 milioni di ettari coltivati per una superficie equivalente a Lombardia, Liguria ed Emilia Romagna messe insieme. Solo in Lombardia per fare posto al cemento si cancellano ogni anno 5mila ettari di aree verdi. E si colpiscono in una volta sola l’agricoltura, l’economia, la produzione e la possibilità di una ripresa dell’economia, ma anche il suolo, la tenuta del paese, sempre più vulnerabile, sempre più fragile e sempre più brutto. E il cui destino non interessa alla finanza creativa, non piace ai fan delle formule acrobatiche e agli equilibrismi del Project Financing che dovrebbe riportarci sullo scenario mondiale grazie agli investimenti di mecenati interessati alle grandi opere, ai mostri di cemento, alle centrali, ai treni veloci per andare chissà dove, purché lontano da qui, dove è sempre meno dolce e armonioso e bello vivere.


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