Venezia – Sono gli ultimi giorni della 54° Biennale d’Arte, quest’anno votata al tema dell’illuminazione. Illuminazione, come la bella nozione dei principi ispiratori che dovrebbero governare uno Stato, come il Nume tutelare dell’immaginazione, propria dei classici greci e latini, Luce come percezione della sua assenza.
Dialettica dei contrari che ha generato una Biennale composta, elegante anche se a tratti borghese; alla soglia del finissage, arriva il momento di tirar le fila per questa novella Penelope (Bice Curiger) cui può esser conferito il merito di aver evitato di divedere “alla facilona” i buoni dai cattivi, i vincitori dai perdenti, i sacri dai profani. La sua è stata una Biennale ermeneutica, linea per la costruzione di un pensiero in divenire, spirituale architettura per immagini.
Se il tema dell’erotismo pare esser stato il condotto più prolifico per gli artisti, nota di merito va anche al blow up di Christian Boltanski, che ha concesso la Chance d’esser proiettati all’interno del meccanismo filmico, letteralmente. Il Padiglione Italia, menato col remo dell’ordine, è anch’esso in macro sull’indice generatore dell’arte: Umberto Veronesi, Ennio Morricone, Antonio Marras, sono solo alcuni dei sapienti in filigrana presentati, non assolvibili anche se ignari complici di fronte alla Casbah risultante.
Vittorio Sgarbi compare come lucido orchestratore della manipolazione retorica per propri fini condannabile perché inopportuno e fuori luogo.
Così a celebrare quel fiore d’Italia che è l’amor per l’Arte ecco che l’ispirazione a Cupola opprime l’ascendere della Bellezza, ponendosi come porta sul retro di un’anti celebrazione italiana: 151 anni di celebrazione mafiosa. Mortificante e abominevole macchinazione, il curatore meriterebbe una piccola edicola, dentro quel padiglione Egomaniaco che è la Germania.
Tra calli e gitane, candele e neon, questa Biennale apre all’ipotesi tale per cui tutto può esser tema d’ispirazione, tutto può essere considerato e vertice e base e mezzo per dirsi, pur rischiando un fraintendimento di presupposti, percezioni e rigori.
In mezzo a questa Rapsodia, l’arte rifugia il tempo nel peripatetico giardino greco, spazio meditativo per riflessioni e illuminazioni autentiche.
Paola Pluchino (the ArtShip)