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La recensione di Indie-eye (link) fornisce delle informazioni interessanti a riguardo del lungometraggio: innanzitutto pare che il villone sia stato ereditato dal regista stesso, inoltre la storia, difficilmente decrittabile, contiene a detta dell’autore riferimenti personali di cui lo spettatore nulla può sapere, vieppiù che i frammenti proiettati sui muri della casa ritraenti uomini donne e bambini di inizio ‘900 sono lì semplicemente perché… interessavano a de Orbe.Ciò che resta di Aita aldilà di questi elementi è un lavoro che mi ha ricordato molto i film di Lisandro Alonso: la camera fissa, il silenzio, le luci naturali e il custode che vaga per le stanze impolverate, sono le uniche componenti dell’opera. Il precipitato è dunque parecchio scarno e con ogni probabilità sintonizzarsi sul piano dei significati non è granché conveniente perché non si caverebbe un ragno dal buco. Meglio allora subire passivamente le immagini e prendere atto di quello che si sente: c’è una membrana di inquietudine che a volte vibra lievemente (difatti alcune recensioni in Rete parlano del film come di una variazione sul tema delle case infestate) e suggerisce uno stato di ovattata ansietà che porta alla percezione di un qualcosa che invece non accadrà mai (i bambini e i vandali che esplorano la casa ma che beffardamente dicono “qui non c’è niente”). Attento in qualche modo alla dicotomia luce/buio, il regista registra i due estremi come si faceva una volta sulle musicassette e ne propone il risultato che in alcuni passaggi si abbassa di fedeltà video e che, come carico aggiuntivo, diventa davvero straniante quando proietta quelle vecchie immagini che catturano i fantasmi del passato, o forse i fantasmi del cinema.Bella la sequenza che porta il vecchio custode sul pulpito della chiesa e altrettanto notevole una delle ultime inquadrature che plasma da sé un cerchio dall’incerta morfologia: è un pozzo? È un occhio? È quel bagliore che perseguita il protagonista?
Film in stretta sintesi molto particolare che a causa della sua costanza contemplativa può essere digerito soltanto da pochi coraggiosi cinefili. Le parti in ombra sono decisamente di più rispetto a quelle al sole (e non parlo di difetti ma di “oscurità” nell’accedere alla fruizione), però qua e là ci sono piccoli flash che nobilitano il risultato globale, ed è anche da piccolezze del genere (i flash) che si comprende, con un non so che di confortante, di come il cinema, in fondo, non sia altro che Luce.
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