Articolo di Maurizio Ferrera
pubblicato sul Corriere della Sera il 1 giugno 2012
Ci sono Paesi in cui le
politiche pubbliche si concentrano su risultati concreti per sostenere
opportunità e scelte dei cittadini e altri Paesi in cui contano di più i
simboli astratti, le visioni del mondo, le definizioni giuridiche. Su molte
questioni, e sicuramente su quelle che riguardano la famiglia, l'Italia è
l'emblema del secondo approccio.
Le dispute su «cosa è
famiglia» e sui diritti (libertà, facoltà, obblighi) dei suoi componenti hanno
accompagnato la storia di entrambe le Repubbliche, con momenti di intenso
scontro ideologico su temi quali divorzio, aborto, procreazione assistita,
unioni di fatto.
L'analisi dei bisogni reali di
genitori e figli e, soprattutto, l'identificazione e l'adozione di
politiche efficaci in risposta a questi bisogni hanno invece segnato il passo:
interventi tardivi e svogliati, risorse inadeguate, obiettivi oscillanti e
sempre ambigui, in particolare sul ruolo della donna.
L'enorme divario fra parole e
fatti trova la sua espressione forse più emblematica in un dato: le giovani
italiane fra i 25 e i 39 anni sono oggi quelle che fanno meno figli in Europa e
al tempo stesso quelle per cui
la differenza fra i figli che si hanno
effettivamente e quelli che si vorrebbero (per la maggioranza: almeno due) è
più elevata. Come se non bastasse, pur a fronte di questo divario, la quota di
donne che hanno in programma di fare un (altro) bambino è, di nuovo, la più
bassa in Europa. In misura lievemente inferiore, il fenomeno interessa anche i
maschi italiani nella stessa fascia d'età. Cosa aspettiamo a cambiare rotta, a
varare una politica seria a sostegno delle coppie che desiderano avere figli,
senza per questo perdere lavoro e reddito e senza dover chiedere aiuto ai nonni?
Nella Ue ci sono tanti esempi
a cui ispirarsi. C'è quello nordico, per il quale la famiglia è costituita
da «due persone che condividono durevolmente lo stesso letto e la stessa
tavola» (nessun'altra condizione, secondo un proverbio norvegese): un modello
basato su servizi, politiche di conciliazione e robusti incentivi alla
condivisione del lavoro domestico e di cura. Ma c'è anche quello europeo -
continentale (Germania, Olanda, Francia) più calibrato sulla famiglia
«tradizionale» e meno generoso, ma comunque capace di fornire sicurezza di
reddito e opportunità di scelta, soprattutto alle madri.
Osservando le esperienze
europee dell'ultimo quindicennio, la lezione più importante per l'Italia è
quasi paradossale: siamo così indietro che non dobbiamo neppure porci il
problema di quale modello scegliere. L'offerta di servizi pubblici (in
particolare i nidi) è sotto soglia rispetto agli standard Ue: solo l'11% dei
bambini fino ai tre anni trova posto in asili pubblici, meno del 4% al Sud.
L'opzione fra il modello nordico (copertura superiore al 60%) e quello
continentale (almeno il 20%) presuppone comunque il raggiungimento di un
livello minimo decente.
Lo stesso vale per i congedi
parentali e le prestazioni familiari. Dopo il periodo di astensione
obbligatoria, da noi il rapporto fra indennità e stipendio è molto basso: il
30% a fronte del 67% in Germania e l'80% in Scandinavia. Se si resta a casa, il
reddito cala drasticamente; dato che ci sono pochi nidi e costano cari, non
rimangono che i nonni. E di mettere in programma un secondo o un terzo figlio
non si parla più, a meno che la donna non rinunci al lavoro. Anche l'importo
degli assegni per i minori (e più in generale il sistema delle agevolazioni
fiscali) è in Italia più modesto degli standard Ue, e questa prestazione è per
giunta limitata solo ai lavoratori dipendenti. Se la madre è costretta a stare
a casa, la perdita del secondo reddito non è adeguatamente compensata, aumenta
il rischio di povertà e sorge così un altro ostacolo alla procreazione.
Lavoro, figli, sicurezza
economica, opportunità di scelta: i desideri delle giovani coppie italiane
sono gli stessi di quelle tedesche, francesi, scandinave. Le politiche
pubbliche del nostro Paese non assicurano però le condizioni di base perché
questi desideri si possano realizzare in maniera autonoma. È di questo problema
che lo Stato deve occuparsi con urgenza: rivolgendosi a tutte le coppie, senza
paternalismi, badando più ai risultati che a simboli e definizioni.