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Un film potenzialmente formidabile che, per costruzione, ahimè, alla fine non lo è.
Come se la somma delle parti non corrisponda al totale delle stesse.
Ma sempre di grande cinema, sempre di Coen, stiamo parlando.
Buffo che dopo i fratelli da rosetta alla mortazza Manetti mi ritrovi, praticamente per caso, a vedere il giorno dopo l'ultimo film dei fratelli cinematografici più famosi del pianeta, quei geniacci dei Coen.
Anche perchè ormai i Wachowski (oh, lo scrivo a memoria il cognome, io non riesco a controllar niente quando parto) fratelli non son più, ma sorelle.
Beh, passare da essere fratelli, poi fratello e sorella e infine sorelle è qualcosa di straordinario, altro che Matrix.
Ma torniamo ai Coen, che loro il grande, grandissimo cinema, lo sanno fare. E da decenni ormai.
Ave Cesare è il raro esempio di un film che sfida qualsiasi legge matematica.
Una sequela di scene deliziose, alcune irresistibili, che non porta ad un film altrettanto delizioso ed irresistibile.
Come se la somma delle singole parti non rappresenti il totale delle stesse.
Il problema non è tanto nell'eccessivo numero di "inserti" all'interno della storia principale, no.
Un film, vedi La grande bellezza, può anche essere costituito da soli inserti e avere un'omogeneità pazzesca (penso anche al Piccione).
Il problema sta, appunto, in questa mancanza di omogeneità, in questo continuo andare verticali ed orizzontali che, non solo crea notevoli problemi di ritmo, ma rende le parti verticali (gli inserti, quelli che non portano avanti la storia) quasi insensate.
E qui abbiamo il secondo paradosso del film.
Perchè è proprio in questi inserti che spezzano il ritmo e si legano malissimo al resto che abbiamo le scene migliori.
Alcune, francamente, formidabili.
Mi riferisco in special modo alla deliziosa scena tra l'attore cane Hobie Doyle e il regista interpretato da Fiennes. Veramente perfetta, spassosissima e benissimo costruita. (ricorda molto il "dove vivevate" di Tortora, grande e storico sketch italiano).
O al travolgente tip tap di Tatum, ex attore da commedie testosteroniche che in pochi anni, con tutta la fatica che tale affrancamento comporta, si è dimostrato attore potenzialmente formidabile e sempre più poliedrico.
Ma anche la coreografia acquatica è roba da cinema alto.
Ecco, Ave Cesare funziona alla grande ogni volta che racconta e ricostruisce i set.
Ogni set un genere.
Il noir, il peplum, il musical, l'acquatico, il western, il biblico.
Una goduria per gli amanti sia della macchina cinema che del cinema tout court.
Non che qualcuno avesse mai avuto dubbi sulla straordinaria competenza e passione che i Coen avessero per il loro mestiere ma, insomma, questo ne è il film manifesto.
Ripenso adesso alla seconda confessione di Brolin col prete.
Quel suo dubbio "carrieristico" tra il cinema e il management d'aviazione.
Ecco, quel suo finale decidersi, senza alcun dubbio, per il cinema, quella sensazione improvvisa, quasi una folgorazione, di capire che malgrado tutti i pasticci, i problemi, le montagne russe, i compromessi e gli imprevisti che quel circo gli creava, il cinema era la cosa giusta per lui, ecco, mi sembra un atto d'amore, una dichiarazione degli stessi registi.
E, attenzione, non è atto d'amore verso il cinema, ma soprattutto verso la macchina cinema, che è cosa collegata al primo ma affatto scontata, appunto, da collegare.
Ave Cesare ricostruisce alla grande (sia in senso scenografico che di dinamiche) la Hollywood degli anni 50 e lo fa attraverso i problemi, continui, infiniti, di diversissima natura, che deve affrontare il "fixer" Eddie Mannix, interpretato da Josh Brolin, ormai da anni, tecnicamente, uno dei migliori attori del pianeta.
Anche se in mezzo a Fiennes, Clooney (sempre piacione eh, è inevitabile), Johansson, Swinton e compagnia bella mi piace sottolineare la prova dell'a me sconosciuto Ehrenreich nei panni dell'attore cane re del western e incapace di far altro. Personaggio, tra l'altro, più interessante del film, capace anche di intuizioni geniali (sospettare le comparse, il seguire Tatum) e abilissimo nel suo genere.
Ma in mezzo a tutte queste grandi scene, in mezzo a quest'atmosfera di ricostruzione praticamente perfetta, ecco che abbiamo tante magagne.
La storia principale è debolissima, così debole che forse la si poteva anche togliere a quel punto preferendo una sceneggiatura pazza senza tante basi d'appoggio.
Alcune storie laterali, come quella della Johansson, sono così inutili, scollegate e poco interessanti da rimanerne sbalorditi.
E come potevano poi i Coen non metter dentro le loro riflessioni religiose e politiche?
Ecco, la tavolata di eminenze religiose alla fine sembra funzionare più per ritmo che per scrittura e tutte le vicende dei comunisti paiono a brevissimi tratti formidabili (ad esempio è ottima l'idea di associarli agli sceneggiatori) ma, in generale, sono veramente tirate per le lunghe e troppo, troppo simili una all'altra.
Arrivando poi alla scena dell'acqua e del sottomarino, quasi biblica, visivamente da ohcazzo, ma alla fine talmente esagerata e senza senso che sembra ancora più degli altri un pezzo staccato da un altro puzzle e messo in questo.
Per non parlare della voice off, a mio parere un inutile espediente, in questo caso, di metacinema.
Eh, peccato, perchè questo era un soggetto formidabile, perchè gli attori, le scene, le suggestioni c'erano tutte.
Per non parlare della scrittura dei dialoghi, sempre di altissimo livello (c'è quasi sempre un ricorso ad un linguaggio "alto" di grandissima presa per me).
I Coen sono i Coen, gente che viaggia col marchio in saccoccia, uno stile, una poetica, un fagotto di tematiche sempre sulle spalle.
Forse stavolta avrebbero dovuto divertirsi di meno, non sbracarsi in un soggetto che era un invito allo sbraco troppo allettante.
Forse sto puzzle dovevano curarlo di più.
Avremmo avuto un film magnifico
(voto 7.5)
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