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Al cinema con Hunter: Slevin – Patto criminale (2006)

Creato il 03 gennaio 2014 da Exnovomen

slevin-locandina

Slevin è un film geniale. Non è un capolavoro, è vero – non si sprecano i paroloni così – ma ammettiamolo: con il suo stile un po’ noir, un po’ thriller, un po’ Tarantino, un po’ Coppola e niente di tutto questo, conquista. Funziona perché non ti fa perdere tempo, in un minuto sei già dentro la storia e non ti chiedi il perché di niente, non ti fermi mai a pensare, perché semplicemente non ce n’è bisogno. È come un quadro impressionista, non hai bisogno di sapere cosa significa la barca o l’albero come invece faresti per un Van Eyck. Sei dentro o fuori e tutto quello che conta è quello che provi.

Sto esagerando, me ne rendo conto. Dopotutto stiamo parlando di un film d’intrattenimento, una storia di gangster che non ha nemmeno una briciola dello spessore de Gli Intoccabili o Il Padrino, anzi il tutto viene affrontato in un modo così spensierato che ci si chiede quasi perché non lo trasmettano alla domenica pomeriggio. Eppure la storia non è affatto spensierata: Slevin Kelevra, il nostro protagonista, si trova per una serie di sfortunate vicissitudini a casa del suo amico Nick Fisher. Questi, però, deve parecchi soldi ad ambedue i boss locali (“il Boss”, appunto e “il Rabbino”) e Slevin viene scambiato per il suo amico, che sembra essere irrintracciabile. Inoltre, capendo di non avere scampo, decide di accettare la proposta del “Boss” di uccidere il figlio del “Rabbino” per estinguere parte del suo debito.

Come rendere divertente una trama simile? La risposta l’aveva già data Tarantino anni prima con le Iene e Pulp Fiction: riempi tutto di ironia pulp e dialoghi fuori tema e Paul McGuigan – il semi-sconosciuto regista di Slevin – ha decisamente imparato la lezione. Poi, ed è questo il segreto di Slevin, non è mai sopra le righe. Tarantino, per quanto sia un genio, spesso non viene capito e qualcuno potrebbe vedere i suoi eccessi come “tamarrate” per catturare l’attenzione. McGuigan, invece, se la vede bene dall’esagerare e il risultato è un pulp efficace, elegante che piace a tutti. Poi ci infila una storiella d’amore, che però si fonde benissimo con la trama incasinata, spezza il ritmo quando deve farlo, ma non abbastanza stucchevole da annoiare gli uomini duri. E c’è una Lucy Liu che non si può non amare.

Non è un film d’azione, nonostante il ritmo incalzante. Dimenticate le scazzottate e le sparatorie. Tutto il ritmo viene dato dalla trama stessa, dai dialoghi, dall’atmosfera. Infatti, ciò che rende davvero geniale questa pellicola è che tutto quello che ho detto fin’ora, il pulp, l’ironia, la leggerezza si assottigliano a mano a mano che si procede. Se si parte con il fare di commedia verso la fine ci ricordiamo che è proprio un noir/thriller ciò che stiamo vedendo, intricato e sorprendente ed è questo che ti incolla allo schermo e non ti lascia pensare.

Infine, mettiamoci una fotografia splendida, con colori à la Woody Allen (inaspettati per un film del genere), Morgan Freeman e Ben Kinglsey che sono sempre bravi, Bruce Willis come al solito cartonato ma credibile nel suo ruolo, Josh Hartnett molto simpatico e lo ripeto: Lucy Liu perché è Lucy Liu.

Hunter Reed (Fabio Rossato)


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