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Ginocchia, gambe, glutei, pube.
Forse in questo primo minuto c'è già gran parte di quello che sarà il resto de La Invencion de la Carne, tenero e allo stesso tempo morboso film argentino del regista Santiago Loza.
C'è già, ad esempio, l'ossessione per il corpo, vero e forse unico protagonista della pellicola. Corpi nudi come ultime vestigia di uomini e donne che paiono quasi incapaci di pensare, sballottati qua e là solo dagli istinti e da basiche necessità. Mai un pensiero, mai un vero e proprio processo intellettivo, mai un dialogo che non sia soltanto mero collegamento tra un prima e un dopo. E allora corpi nudi che si vestono, corpi che nuotano, altri che galleggiano, corpi che fanno un sesso stanco, violento o privo di passione, corpi che si contorcono per la sofferenza e corpi che si abbracciano.
Come se l'uomo abbia raggiunto un punto zero nell'uso del libero arbitrio, o semplicemente in quello delle passioni, degli obbiettivi, degli slanci vitali, e sia rimasto solo questo, un corpo, possibilmente nudo, che si muove nell'inerzia del mondo.
Ma in quel primo minuto c'è anche altro, c'è il manifesto di una scelta stilistica che poche volte ho visto così radicale in vita mia. Un film che è fatto solo di primissimi piani, di dettagli, di inquadrature a non più di pochi centimetri dall'oggetto di ripresa. Così vicino da rendere panoramica anche il solo scorrere un braccio, o una schiena. Campi medi che si contano sulle dita di una mano, riservati solo alla passeggiate di lei nella campagna. Per il resto questa ossessione, ancora una, per il dettaglio, per la chiusura dello sguardo, come se oltre quei corpi, quegli oggetti, quei piccoli gesti non ci fosse nulla. E' un pò la tecnica che avevamo già visto nell'immenso Mommy ma se lì la chiusura era suggerita dal formato scelto qua è la vicinanza della macchina da presa a raccontarla. Siamo quasi al confine dell'amatoriale, dello zoom imperante, in un film che però amatoriale certo non è.
C'è la sensazione però di un eccesso in questo senso, che ci porta vicini a considerare il tutto un esercizio di stile. Ma il paradosso è che, pur avendomi dato questa sensazione, al contempo ho anche la certezza che l'esercizio di stile sia solo una conseguenza, non la scelta. Perchè che questo sia un film genuino, sofferto e sofferente, lo si capisce da lontano.
Ma in quel primo minuto ci sono anche le tematiche del film. C'è quella del sesso, richiamato da quella vagina a schermo pieno ma, nelle stessa immagine, c'è anche il richiamo ad una maternità che, sottotraccia, non ci abbandonerà mai. L'omosessualità latente di lui, la scena in piscina dove, per pochi secondi, culla un bambino, le ripetute scene di parti (lui studia medicina), e poi quel bimbo finale rubato alla madre bambina e cullato con un amore materno con pochi pari.
Ecco, in quel primo minuto c'è tutto di questo film strano, essenziale, spoglio come i corpi che presenta, talmente ellittico (è un film sul togliere) da lasciarci in più di una scena disorientati.
Ci sono queste esistenze represse, apatiche, incapaci di emergere. E non è un caso il reiterato accenno al sott'acqua, con tutte le scene, splendide, di lui in piscina, con quella di lei sulla vasca e con quei pesciolini rossi. Non si respira, non si respira mai, non ci sono vie d'uscita nè cinematografiche nè esistenziali.
E però ho faticato, ho faticato tanto. Perchè quell'apatia dei personaggi con me non si è mai trasformata in empatia verso di loro, perchè non ho sofferto, non mi sono emozionato, mi sono soltanto focalizzato intellettualmente in tutte quelle ossessioni, senza sentirne il peso o la potenza.
E tra le tante cose interessanti che ha detto nel post-film Sangiorgio (presente in sala) voglio prendere la più piccola e forse insignificante.
Lo ha chiamato film fragile.
E io credo che questa sia una definizione perfetta.
Perchè io quella fragilità l'ho percepita tutta, ma non mi ha mosso niente.
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