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Al Cinema: recensione "Maggie" (Contagious - Epidemia mortale)
Creato il 30 giugno 2015 da Giuseppe ArmelliniPiù andava avanti più si toglieva di dosso le croste del solito film apocalittico per mostrarci la sua vera pelle, ovvero la storia di un meraviglioso rapporto padre-figlia che cercava di andare al di là dell'ineluttabile.
A mio parere capire veramente Maggie (a proposito, da esecuzione Isisiana i titolisti italiani, non solo per la banalità del titolo, Contagious, e dell'aberrante sotto titolo, Epidemia Mortale, solito specchietto delle allodole per spettatori bifolchi, non tanto per tutto quello che di penoso hanno "inventato", ma proprio per quello che hanno tolto, "Maggie", ossia il nome di lei, ossia tutto quello che il film è in realtà, ossia l'anima di tutto), dicevamo che per capirlo veramente dovremmo uscire completamente dal genere.
Ma completamente proprio eh.
Maggie non è un post apocalittico, non è un horror, non c'entrano niente gli zombie, le epidemie, gli spari in testa o i morsi contagiosi.
Maggie è un film prettamente umano, molto molto delicato, che ha indossato le lacere e sporche vesti del post apocalisse per mostrarsi.
Che poi il vestito è anche buono eh, con ambientazioni magari non eccezionali ma ben realizzate, make up di altissimo livello (ottima la scelta della necrosi, abbastanza originale) e soprattutto con una stranissima fotografia che sembra cambiare decine di volte, regalandoci inquadrature e colori davvero splendidi. Per il resto c'è una ossessione per i primissimi piani, come a voler dare ancora più intimità al film.
Tralasciando la prima parte, ricca di spiegoni e, come detto sopra, di cose viste e straviste, il difetto principale di Maggie sta in una sceneggiatura prevedibilissima e abbastanza statica, un lento e costante avvicinarsi a qualcosa di inevitabile. Intendiamoci, il film è questo e difficilmente poteva gestirsi diversamente, ma certo la sensazione di trovarsi davanti ad un possibile corto allungato all'inverosimile è forte. E, anche questo impossibile da negare, il film ricerca più di una volta un eccessivo coinvolgimento ed empatia, la classica lacrima, specie con l'aiuto di una colonna sonora onnipresente e "tattica" in questo senso.
Quando ci troviamo davanti ad opere di questo tipo allora l'unica discriminante che possiamo usare è semplicemente una: il cuore.
E sto film ne ha da vendere e pure il magazzino pieno dietro.
I personaggi sono delicati, umani, verosimili, pieni di dubbi e difetti. Non ci sono scene madri irreali, tutto è raccontato con notevole tatto e misura. Fa quasi tenerezza vedere la scena in cui Schwarzenegger si chiede cosa abbia trovato la moglie (morta) in lui, uomo così semplice e rozzo (insomma, non SchwarznHegel).
Ma non è quella l'unica scena in cui il regista dimostra una rarissima sensibilità.
Ad esempio la sequenza della notte tra amici è splendida e l'abbraccio la mattina successiva tra Maggie e la sua migliore amica quasi da pelle d'oca, Si erano appena salutate, poi l'altra si rende conto che forse questo non era il solito saluto, ma l'ultimo, torna indietro e le dice quanto le vuole bene. Probabilmente il rapporto tra Maggie e il padre è più intenso di questo ma vedere il saluto finale tra due coetanee, una nel fiore della vita e l'altra ormai prossima alla morte, fa un effetto come nessun'altro.
E se è vero che nei film di "mostri", da quelli più grandi come King Kong ai più piccoli, il cinema ha sempre cercato di indagare anche il lato umano degli stessi (nessun mostro è solo mostro), è anche vero che sequenze come quelle di quel bacio dato nel vortice finale della malattia, quando ormai di umano non restava più nulla, è qualcosa di potente.
Ma sapete quale è la scena che dimostra la vera anima del film, il suo sì esser retorico ma assolutamente genuino?
Il finale.
Un regista che avesse voluto premere sulla tecnica lacrimandi facilotta ci avrebbe regalato flash back della madre continui. E invece solo là, per la prima volta, la vediamo, questa presenza costante che nel film mai avevamo visto. Nel momento più intenso c'è quella luce, quel prato, quelle margherite. Questo è raccontare sensibilità, questo è il saper aspettare il momento giusto, l'unico momento, per mostrare qualcosa che sottotraccia c'era sempre stato.
Ma al di là di tutto, che il film possa piacere o non piacere, essere retorico o no, c'è un aspetto di importanza estrema impossibile da non riconoscere.
Maggie è un film sulle malattie degenerative, su quelle lente e inesorabili patologie che piano piano, spesso tra sofferenze atroci, ti portano via da questo mondo.
E' un film su queste malattie e sull'amore che fino all'ultimo momento provano a darti le persone che ti stanno vicine.
Un amore sofferto, che urla disperazione, un amore che ti distrugge e che più è forte e più paradossalmente dimostra quanto sia inutile.
Ma è anche un amore unico, esclusivo e, per quanto possa sembrare il contrario, vitale e necessario.
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