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Al Cinema: recensione "Mommy"

Creato il 23 dicembre 2014 da Giuseppe Armellini

presenti spoiler
Due folgorazioni in un giorno solo non sono poche.
Questo era il mio primo Dolan.
E questa era la mia prima volta in un nuovo -ma vecchio per spirito e stile- cinema di Perugia (che avendo ben 3 sale porta a 6 il numero totale di sale che trasmettono bel cinema cittadine).
Meraviglioso il primo, meraviglioso il secondo.
Dolan ha 25 anni, un'età in cui film del genere non solo sono una rarità, ma una chimera.
E questo qua è il suo quinto film.
A 25 anni.
Quinto film.
Chè è sempre meglio ripeterle le cose.
Ci sarà già, me lo immagino, una certa fetta di critica che questo non lo sopporterà, che quelli ritenuti bravi o troppo bravi deve massacrarli quasi per sport. Pace. Io uno che a 25 anni mi tira fuori un film come Mommy, un film che per scrittura, regia, stile, maturità e senso della misura sembra quasi l'opera definitiva di un regista acclamato, io uno così lo chiamo genio.
Mommy mi ha ricordato uno strano connubio tra i Dardenne e Sorrentino, la capacità di raccontare la vita "dal di dentro" dei primi unita allo stile cinematografico del secondo.
Ecco, Dolan a 25 anni sembra già conoscere la poesia del degrado, il lirismo della merda, e ste cose pochissimi riescono a metterle insieme così.
Diane è una donna di 45 anni che cerca di mostrarsi e comportarsi da ragazzina per sublimare o cancellare una vita non proprio facile.
Una vita che le ha dato suo figlio Steve, un 16enne affetto da gravi disturbi comportamentali.
Steve ha bruciato la mensa della "comunità" in cui era rinchiuso.
E' costretto a tornare dalla madre.
In qualche modo i due devono (con)vivere.
Madre e figlio sono profondamente legati, profondamente innamorati tra loro, in un senso animale, viscerale.
Se devo citare un film che racconti in modo simile un rapporto del genere, ecco, citerei uno dei miei film preferiti, Tarnation. Magari qua i ruoli sono opposti, ma solo fino ad un certo punto perchè in queste situazioni il confine tra chi abbia bisogno di chi è davverlo labile.
Il paradosso di Mommy è, parere personalissimo, quello che pur raccontando di un rapporto disastrato (ma non disastroso), di un degrado psicologico quasi estremo, di una madre e di un figlio che da un momento all'altro rischiano di uccidersi a vicenda, racconta invece, secondo me, la storia di una grande madre e di un grande figlio.
E se a quelli che si svegliano con la colazione pronta la mattina, che dicono ai figli di rimettere a posto la stanza e che si scandalizzano se il gatto ha graffiato la poltrona questa cosa può dar fastidio problemi loro.
Mommy racconta di un rapporto viscerale, primordiale, bellissimo tra madre e figlio. Un bisogno reciproco, un difendersi e attaccarsi continuo, un riconoscersi compagni di sventura in una vita difficilissima, un continuo passaggio dalla speranza alla rassegnazione.
Steve regala alla madre una catenina.
"Mommy" c'è scritto.
E lei la porterà per tutto il film, sempre al collo, quasi a ricordare a noi e a sè stessa quello che lei è, una mamma. Quella catenina diventerà quasi un monito, un post-it di una missione difficilissima che lei deve portare avanti, crescere suo figlio e, se possibile, salvarlo.
Suo figlio che la ama da morire, che ancora non ha superato la morte del padre, suo figlio che è geloso di lei, che le canta al pub in karaoke "Vivo per lei" di Bocelli quando si accorge che c'è un uomo che vuole portarla via, suo figlio che è dolcissimo, instabile ma dolcissimo, sboccato ma dolcissimo, violento ma dolcissimo.
Ma da certe "malattie" psicologiche è difficile uscirne e secondo la responsabile della comunità dove era rinchiuso Steve "amare non vuol dire salvare", frase apparentemente inumana ma a volte purtroppo vera.
Ma i due ci provano, magari ogni tanto rischiano di ammazzarsi a vicenda ma provano ad andare avanti insieme. Ed ecco che tra loro si inserisce il personaggio di Kyla, splendido, la vicina di casa che si affeziona ai due e crea con loro un trio di alchemica perfezione, un trio che si basta da solo, lei che mentre li aiuta è allo stesso tempo aiutata, lei che balbetta ma più sta in quella casa e più "Hai visto che balbetta di meno?", lei che ha scoperto che a volte la cura per certe malattie, ad esempio la sua malattia di vivere, non è nella serenità ma in quell'inferno in cui tuffarsi e provare a rendere più tiepido, come se le cure per le malattie non siano cure ma malattie stesse.
Dolan scrive da Dio, sceneggia alla grande e non esagera mai, in un soggetto dove la possibilità di scene di dolore o tragedia quasi definitive facevano capolino ogni secondo. Paradossalmente le scene madri sono così da ricercare in piccoli dialoghi, in piccoli gesti, in uno skate che grida libertà o in un selfie che per un secondo prova ad immortalare un attimo di felicità di tre persone infelici.
Oppure in una macchia di pipì, in una paura mascherata da aggressività, in una mente da bambino nel corpo di un ragazzo che tutto vorrebbe distruggere.
Dolan ha uno stile pazzesco, usa le colonne sonore magistralmente, ci offre con il sogno di Diane una 25ima ora di impressionante bellezza, una 25ima ora che mai sarà e che come nel capolavoro di Spike Lee precede invece una 24ima molto più reale e, ahimè, tragica.
Ed è qui che secondo me può nascondersi l'unico errore di Mommy, in una sceneggiatura che non ci stava portando in quella direzione, in un improvviso cedimento di una madre che, a mio parere, stava invece vincendo, pur tra mille difficoltà, la sua battaglia.
Ma purtroppo ci sono vite che non potranno mai essere in 16:9.
Vite che sono costrette in uno schermo 1:1, come quello usato da Mommy.
Ma vedere Steve che per strada allarga lo schermo, vederli ridere tutti e tre a vita e schermo interi, è stata una delle più belle metafore della felicità e della serenità che abbia mai visto.
E lo schermo si allargherà ancora una volta nel sogno di Diane.
Come se la felicità in certe vite possa esistere solo nei sogni o in rarissimi sprazzi di esistenza.
Poi tutto si restringe
E un ragazzo corre.

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