Saigyo, poeta e monaco giapponese del XII secolo scriveva: “Ascoltando il rumore / del torrente montano, / si può conoscere / lo scorrere veloce / della vita umana. ” ; questo tanka mi sembra possa ben introdurre alla natura liquida della poesia della Bukovaz e al suo panismo vocale che la rende linfa e abbeveratoio di tutto il paesaggio, un paesaggio desolato, una carne abbandonata, un involucro svuotato dove: “ Si attende come sempre il vento e la perdita / come annuncio di nuova scoperta ”.
È uno spettro quello che si muove nelle videopoesie della Bukovaz, uno spettro che sembra toccarsi come un bambino, frugando, cercando nel proprio ectoplasma uno spazio o una fenditura dove possa ancora esser accolto il tutto, l’intero di ciò che è andato perduto o di ciò che non si è mai ricevuto: “Ho deciso di stare dove posso comprenderti tutto / dove puoi stare davanti a me e io lasciarti andare / dove se allungo la mano ti entro e tu mi coli intorno”, questi i versi di apertura di Storia di una donna che guarda al dissolversi del paesaggio. “Colare” è il verbo simbolo di questa raccolta, di questa concezione che sente l’Io come particella d’amore che trabocca da se stessa nel “Centro dei centri / in cui siamo uno e non c’è più nessuno” e che sente la necessità di fluidificarsi , scivolare come un rivolo di pioggia che scenda tra le crepe delle macerie, come sangue che righi un ginocchio, come rugiada che veni la foglia, come vernice bianca che si rovesci su un pavimento nero. Ma non è un pavimento quello su cui poggiano i piedi della poetessa, esso è più un sentiero, un passaggio in cui il sostegno della materia e della pagina bianca vengono respinti: “Io però / cerco un’altra materia a sostenere la geografia / che porto tatuata sotto la pianta dei piedi” e ancora: “Rimuovo la parola / come una costola / preparo l’impasto / e lo verso dazio del mio passaggio”. Quindi il binomio passaggio – paesaggio per essere attivato ha bisogno che si versi la tassa della lingua (quella slovena soprattutto) come leggiamo in Canto per lingue sconfinate e che si attraversino i “luoghi stremati dai nomi” per poter continuare sul sentiero, per ritornare all’origine, alla parola madre.
La grandezza della Bukovaz sta nella potente sinergia tra parola, immagine e suono che, pur lavorando in tre comparti diversi dell’anima, sono lanciati allo stesso modo come nebbia – incenso sui campi e sulle strade disabitate dei filmati come in molti tratti di vita, creando dentro chi ascolta la stessa luce di quelle albe invernali delle foreste nordiche. La poesia mira a toglierci il cerume d’ombra che abbiamo accumulato nel tempo sentendo e non ascoltando, vedendo e non guardando; e questo libro c’è riuscito, abbattendo proprio quel “limite” tra udito e vista generando così un nuovo paesaggio, di pietre, alberi e volti dove al camminatore è richiesto solo di “Non confondersi. / Separarsi dal nome. / Non identificarsi. / Lasciarsi portare. / Non riflettersi. / Farsi amare.” , il prontuario che seguì anche Saigyo quando lasciò il mondo per diventare eremita.
Alessandro Vetuli
Antonella Bukovaz , al Limite, Le Lettere, pp. 120, euro 32