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“Al limite della notte” di Michael Cunningham

Creato il 11 gennaio 2011 da Sulromanzo

“Al limite della notte” di Michael Cunningham

«Nulla è il bello, se non l'emergenza del tremendo». Si apre con questa citazione di Rainer Maria Rilke l'ultimo romanzo di Michael Cunningham. Il bello e il tremendo che così bene convivono nelle sue pagine. E convivono nella vita e nella nostra esistenza; quotidiano e placido trascorrere del tempo costantemente minacciato dalla rivelazione dell'eternità. L'uomo che sta in bilico tra il mondo e l'abisso. Noi stiamo dentro la vita e sempre sul limite, al limite con la morte; Al limite con la notte. È questo il titolo dell'ultimo mirabolante lavoro di Cunningham edito da Bompiani (By nightfall il titolo originale).

L'autore che nel 1999 vinse il premio Pulitzer per la letteratura ed il premio Pen/Faulkner con The Hours (Le ore in italiano, edito sempre da Bompiani) torna ad affrontare alcuni dei suoi argomenti prediletti, l'amore, l'attrazione fatale, l'omosessualità, l'angoscia di vivere, la follia, la dipendenza da stupefacenti, il fascino terribile dell'arte, della bellezza e della morte. Argomenti delicati, difficili, enormi, tenuti magistralmente insieme dalla stramaledetta bravura di Cunningham, dalla sua scrittura sempre delicata, raffinata, seducente ed essenziale, con i suoi dialoghi secchi e decisi, con fulminei cambi del punto di vista, che talvolta passa dalla sua faticosa obiettività, dalla più distaccata terza persona, ad una allarmata e spiazzante prima persona che scende all'interno del protagonista. Sono soggettive brevi e continue che finiscono con il trascinare il lettore dentro la storia, lo rendono compartecipe dei sentimenti dei personaggi.

Peter è un mercante d'arte di Manhattan, vive una vita agiata e comoda, ha una moglie affascinante (Rebecca) ed una figlia (Bea) che sta a Boston con cui non va troppo d'accordo. Tutto sommato è un uomo di successo, una delle migliaia di persone in gamba e benestanti trasferitesi a New York. Eppure anche lui, come tutti, nasconde il mistero, racchiude l'abisso più insondabile; l'abisso umano. La visita dello splendido fratello della moglie lo travolge con un impeto inaspettato. Quando Ethan, soprannominato Erry- l'Errore, nella traduzione italiana di Andrea Silvestri (in inglese è Mizzy, diminutivo di The Mistake), così simile ad una scultura di Rodin, si trasferisce a casa di Peter e Rebecca, l'abisso inizia a spalancarsi. La bellezza di Erry, il suo fascino maledetto, che ricorda inevitabilmente il Dorian Gray di Oscar Wilde, squarciano la "normalità", dilaniano la maschera del quotidiano. Si spalanca l'abisso e dentro l'abisso c'è anche il passato.

Cunningham tira fuori i ricordi dei suoi splendidi personaggi, il fascino contorto della loro esistenza e lo fa con la sua solita padronanza assoluta della trama e degli eventi. Trascinati da un montaggio lento pieno di leggerissime dissolvenze incrociate scopriamo la famiglia di Rebecca ed Erry e vediamo il piccolo Peter sprofondare nell'estatica contemplazione della bellezza, mentre in spiaggia osserva il fratello omosessuale con la bellissima amica Joanna. Fu quella la prima rivelazione di una bellezza assoluta, totale e per questo terribile, mortifera, tremenda. La stessa bellezza che ovunque lampeggia nel romanzo, tra le sale dei musei, a casa di ricchi mecenati, nel silenzio raccolto delle stanze da letto. Una bellezza che divelle le porte della conoscenza e che allo stesso tempo compromette la nostra vita senza rimedio. Una bellezza a cui non si può dare nome. Erry è splendido; Erry-l'Errore, rappresenta per Peter sua moglie e sua figlia e quindi se stesso, l'uomo e la donna, la sua giovinezza, il suo essere uomo.

Bellezza dannata e distruttiva ricercata nell'arte e ricercata nella vita, ornamento estetico e metafisico dell'esistenza, ma che come ogni altra cosa spesso finisce per svuotarsi da sola, tradendoci, si sfalda tra le mani e ci lascia soli, con il nostro vecchio mondo, con i soliti dubbi e la consapevolezza inconsolabile della nostra povertà umana. La stessa povertà che però può renderci eterni. Ed Erry allora è già morto, è già suicida, anche da vivo.

Viene voglia di chiudere qui, con una frase di Khalil Gibran «La bellezza è l'eternità che si contempla in uno specchio. E noi siamo l'eternità. E noi siamo lo specchio».


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