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“Al Paese dei Libri” di Paul Collins (traduzione Roberto Serrai)
Immaginate uno scrittore, americano, innamorato da sempre dei libri, che viene invitato a trascorrere un periodo di lavoro e studio in un paesino della vecchia Inghilterra, Hay-on-Wye. È un luogo speciale, famoso per il festival letterario che, ogni anno, lo rende meta di turisti e scrittori. Come si vive un’esperienza simile? Cosa si fa?
Incontriamo Paul, il protagonista, a Manhattan, mentre guarda gli edifici che circondano quello nel quale si trova lui. Lo incontriamo in un momento alquanto particolare e per certi versi bizzarro. Infatti il suo editor dice:
“ Meno male che il tuo libro non esce adesso”[…]“Sai,” aggiunge, in confidenza “abbiamo finito la carta. Colpa di Harry Potter.”
Confesso di essere arrivata all’ultima pagina un po’ amareggiata: mi aspettavo altre situazioni altrettanto paradossali, ma quelle che si incontrano non hanno lo stesso sapore. Eppure di dettagli stravaganti nel libro se ne trovano diversi. Per esempio, l’autore sembra quasi essere ossessionato da cartelli e annunci che riporta fedelmente e commenta. Tra questi anche quello che offre ai lettori la possibilità di entrare alla Camera dei Lord (“È il lavoro per me! Pag. 143).
E che dire poi del capitolo 19? “Vive”…e ha una cornice originale.
Devo però ammettere che alcuni commenti di Paul sul ‘nuovo mondo’ sono un misto tra il cinico e l’ignorante, ma è chiaro che questo romanzo vuole essere una sorta di buildungsroman: il protagonista viene catapultato in un mondo che non gli appartiene e, attraverso una serie di esperienze, deve ‘crescere’.
Ma torniamo, per un attimo, all’inizio di questa avventura resa possibile dall’invito di Richard Booth, un libraio particolarmente egocentrico, a riordinare la libreria di famiglia, una sorta di meraviglioso universo parallelo popolato da libri rari, sconosciuti, introvabili che Paul Collins potrà toccare, respirare, “catalogare” (è quello che fa, lo so. Ma in questo contesto, pensando ai titoli che si trova fra le mani, sembra un verbo così ‘volgare’).
Il narratore, quindi, mentre aspetta che venga pubblicato un suo lavoro, si trasferisce per sei mesi nel Regno Unito, insieme alla moglie Jennifer e al figlio Morgan, e condivide subito con noi la fatica e l’entusiasmo del cercare un posto nel quale abitare, una casa accogliente e piena di storia (case vecchie di 400 anni, case come la Sixpence House, “un edificio massiccio, decrepito e sbilenco… il modo migliore per capire se è Tudor autentico è guardare gli angoli: al tempo non li sapevano fare bene” pag. 136) in questo paesino in cui c’è una libreria ogni 40 abitanti. E sono librerie vecchie, anch’esse, con tante storie da raccontare e tanti volumi che chiedono di essere riportati alla vita da nuovi entusiasti lettori.
Eppure l’entusiasmo e l’argomento non sono, in alcune pagine, sufficienti. Credo infatti che sarebbe stato utile, per il lettore, trovare qualche nota del traduttore (ce ne sono davvero poche!) con spiegazioni ‘geografiche’ (per esempio di Londra: difficile capire veramente quello che leggiamo se non siamo ‘parte’ di quel mondo) e letterarie. Ho la sensazione che molto spesso il lettore italiano (o comunque ‘straniero’ rispetto la lingua e cultura del romanzo, questo o altri) perda il senso di ciò che gli viene detto perché non sa, non si pone il dubbio ed è, volente o nolente, costretto a vivere in una sorta di nuvola sospesa.
Ma questo difetto non è poi così importante: “Al paese dei libri” è un racconto di storia letteraria poco conosciuta (ed un contributo importante alla ‘riesumazione’ di vecchi volumi); una finestra su un mondo ideale (per ogni lettore, credo) nel quale i libri sono parte integrante della vita delle persone perché ci lavorano ma soprattutto perché li amano, fanno parte di ciò che sono, sono stati e sempre saranno. E questo è un ottimo motivo per il quale consigliarvi la lettura di “Al paese dei libri”.
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