Oggi, sabato 18 maggio alle 12.30, nella Sala Gialla del Salone del Libro c’è stato l’incontro, o piuttosto il dialogo tra le quattro autrici di due libri. Due libri, due modi di raccontare un gran numero di storie, un argomento ed un obiettivo comune: parlare e informare sulla morte delle donne quando avviene per mano dei compagni.
Michela Murgia e Loredana Lipperini presentano e parlano del loro libro “L’ho uccisa perché l’amavo”. È un libro che conta sulla potenza delle parole, sulla loro forza di creare il pensiero e di poter cambiare quindi alcune visioni culturali e la formazione delle persone. Si parla di femminicidio, una parola forte ma anche scomoda, che spesso viene rifiutata perché si sostiene discrimini le donne. Purtroppo però il femminicidio esiste e le due autrici ragionano di come viene raccontato, nei media come nella vita quotidiana, confutando tutti gli elementi che generalmente lo minimizzano o lo negano. Ancora, con una precisa panoramica sulla situazione italiana ci viene esposto come, a differenza di tutti gli altri crimini che stanno decrescendo, il femminicidio cresce percentualmente: se vent’anni fa su 1500 delitti 150 erano femminicidi, oggi la proporzione è 150 su 600. Una donna su quattro viene uccisa dal compagno (vengono contate infatti solamente le donne che arrivano a venire uccise). Murgia e Lipperini si propongono di lavorare sul racconto e sulle parole cercando una soluzione a partire dalla cultura, che ha sempre parlato di questa problematica mettendosi sempre però nello sguardo dell’uomo, si pensi a un capolavoro come la Carmen e alla gloria di Don Josè, e sostengono che bisognerebbe arrivare a celebrare certe opere d’arte però mettendosi dal punto di vista delle vittime. Se non si cambiano le parole, continuano, non si cambiano le persone; si deve andare oltre la cronaca giornalistica perché spesso essa legittima alcune categorie per via dell’utilizzo di un linguaggio sminuente, ad esempio quando si parla di “incidente”. Ogni capitolo del libro è intitolato con una frase che le due donne propongono di abolire: il femminicidio e certe tematiche devono essere affrontate come obbligo morale; le donne in questi casi vengono uccise per cause precise, per degli uomini che ne rivendicavano il possesso, e rifiutarsi di affrontare le cause e le ragioni di questi omicidi (ma anche solo di certe “morti quotidiane” di coloro che vengono maltrattate)è rifiutarsi di affrontare il problema.
L’altro libro, “Questo non è amore”, curato dalle giornaliste del blog del Corriere della Sera “La 27ma ora” e presentato dalla Stefanelli e dalla Fasano nasce da un’inchiesta partita un anno fa sulla violenza sulle donne. Il libro dà voce e la parola alle donne ma anche agli operatori che lavorano al fianco: sono 20 storie più alcuni capitoli sull’esperienza di psicologi, carabinieri, magistrati e addetti ai centri anti-violenza. Le due donne hanno esposto tre scelte che rappresentano i fili d’Arianna del libro: lasciare ogni donna libera di raccontare usando i suoi modi e il suo linguaggio; la volontà di specificare e determinare che quando un uomo maltratta una donna non lo fa per amore, che l’amore è altro (nonostante l’opinione differente riportata di Lea Melandri per cui è una forma distorta d’amore, e bisogna prenderne atto) e, infine, riportare storie di donne di età e situazioni diverse, soprattutto stalking e maltrattamenti, ma che riescono a salvarsi, spesso grazie alla classica “goccia che fa traboccare il vaso” che smuove e sblocca situazioni stagnanti e orrende.
Tutte e quattro le donne, la Murgia e la Lipperini e la Stefanelli e la Fasano, sono concordi nell’affermare che quello che potrebbe passare per un problema delle donne è prima di tutto un problema degli uomini, che c’è bisogno di uomini diversi, di persone diverse, e che un risultato si può ottenere cambiando il modo di pensar partire da scuola e formazione e facendo attenzione ad ogni nostro pensiero e atteggiamento quotidiani.
Articolo di Miriam Barone.