Insieme ad Amour di Michael Haneke e La grande bellezza di Paolo Sorrentino, il più bel film europeo da vari anni a questa parte, e senza dubbio il migliore che il cinema belga abbia mai partorito. Alabama Monroe (The Broken Circle Breakdown) di Felix Van Groeningen ha l’irruenza di un ago nelle vene, di uno spillo che prima marchia la pelle, poi scende in profondità e contamina il sangue.
“Il cerchio rotto collassa”. Anche con una rozza traduzione alla lettera, il titolo originale ci mette subito in guardia sulla tragedia che c’attende. Ed è un cerchio della vita lontano anni luce da quello decantato dal Re Leone. Un cerchio magico che si rompe presto e non si ricuce mai. Un anello che si spezza, si sgretola e poi precipita nello strapiombo di una bella vita di coppia in superficie, costruita sulla sabbia, sulle fragili fondamenta di una “ideologia” di vita non condivisa.
Diciamolo con chiarezza: Alabama Monroe è un film che fa male, che colpisce duro e non chiede scusa. E ci riesce anche grazie ad un montaggio, una fotografia e una colonna sonora che più volte tendono a rassicurarci, a farci prendere un bel respirone di vita per poi segarci il fiato e lasciarci storditi. Il montaggio di Nico Leunen salta avanti e indietro nel tempo per otto lunghi anni. Lo fa senza grossi preavvisi, ma anche senza mai lasciarci sprovvisti di coordinate narrative. Così, pur con fare meno invasivo e meno cerebrale di 21 grammi di Inarritu, giustappone il fatato imbarazzo del primo incontro con il dramma più atroce che possa consumarsi in una corsia d’ospedale. Prima ci apre gli occhi, poi ci sfregia l’anima. Sulla stessa falsariga si muovono la fotografia di Ruben Impens, calda, avvolgente, empatica, come una coperta pronta a scaldarci quando la vita ci gela il sangue, e le musiche bluegrass di Bjorn Eriksson che danno sacralità e spensieratezza ad una storia sospesa tra amore e morte.
A molti Alabama Monroe ricorderà La guerra è dichiarata di Valerie Donzelli. Il paragone ci sta tutto, ma il film di Felix Van Groeningen va oltre il dramma di una piccola tenera creatura. Se il film della Donzelli si concentrava sulla lunga “degenza” del piccolo Adam e aveva il buon cuore di consolarci con un lieto fine, The Broken Circle Breakdown fa della morte della piccola Maybelle una sorta di anticamera alla tragedia che poi coinvolgerà i due protagonisti, chiusa da un finale che lascia turbati e magramente rassicurati da un nuovo giro di bluegrass.
Alabama Monroe va oltre, dicevamo, definendosi come un’opera straordinariamente densa, capace di mischiare più temi e sondare nel profondo un intero campionario di relazioni e sentimenti umani troppo umani: l’amore, l’amicizia, l’accusa, il perdono, la rabbia che tutto lacera e tutto distrugge. Ma è anche un film sul rapporto tra l’uomo e “l’altro”, tra chi crede in Dio e chi no, tra il sogno (l’America) e la disattesa di quest’ultimo nell’incontro/scontro con la cruda realtà (il governo Bush contro le cellule staminali). E forse è proprio quest’ultimo quello che sulla lunga distanza si fa preponderante, mettendo in luce come l’american dream sia oramai ridotto a pura utopia sia di qua che di là dall’Atlantico.
Lasciandoci confusi ed estasiati, Alabama Monroe è infine un anomalo inno alla vita e al senso della vita, nell’accezione in cui questa abbracci indistintamente gioie e dolori, o meglio grandi gioie ed enormi dolori. Un film di emozioni struggenti e divergenti, che commuove pur non dandocene il tempo necessario, quasi vietandoci di metabolizzare quanto visto e vissuto.
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