L’ultima produzione del Teatro Filodrammatici di Milano è AlbaNaia, con la drammaturgia di Bruno Fornasari e Tommaso Amadio, tratto dal romanzo di Augusto Bianchi Rizzi. Appena andato in scena in teatro, lo spettacolo vede la partecipazione del Coro ANA degli Alpini, coerentemente con l’oggetto dell’azione: la campagna italo-greca tra l’ottobre 1940 e l’aprile 1941.
Una guerra che da lampo diventa guerra di posizione, con gli alpini costretti a vivere in trune di ghiaccio e neve in cui non si poteva stare in piedi, ma camminare mezzi inginocchiati o star sdraiati. Una vita impossibile tra le montagne al confine tra Grecia e Albania, in cui il battaglione di cui fa parte Vittorio Bellei ha l’onore e l’onere di difendere la vetta più alta. Vittorio Bellei è un semplice medico milanese, convinto sostenitore dei motivi della guerra e dell’etica patriottico-fascista; talmente convinto da arruolarsi volontario per la guerra, lasciando a casa il figlio appena nato Giovanni e la moglie Nene. Parte che il piccolo è in fasce e nella culla, lo vede crescere attraverso le fotografie che la moglie gli manda in lettera, e si chiede sempre quando e se ci sarà il giorno in cui potrà riabbracciarli entrambi. Ma, paradossalmente, mai Bellei si domanda se la guerra è sbagliata o meno, mai mette in dubbio il suo dovere di compatriota e cittadino; neppure quando il suo gruppo originario di alpini con cui è partito ha il diritto di scendere dalla montagna, poiché ne arrivano altri a dar loro il cambio, ma non al medico, che resta sempre lui, ricevendo l’ordine di restare ancora lì, tra il ghiaccio e la neve, immobile, a domandarsi (quello sì):
Ma non ho diritto anch’io a un po’ di calore?
Vittorio Bellei è Tomaso Amadio, co-autore del testo e attore protagonista, perfettamente calato nella parte di questo uomo tutto d’un pezzo, ed anche in quelle dei compagni di sciagura di Vittorio, come Nico e Marrazzi, gli altri alpini veneti e bresciani di cui rifa le voci e gli accenti in modo preciso e variegato. Vede morire i suoi amici Vittorio, li vede morire perché colpiti in battaglia o allontanarsi volutamente da una guerra assurda che a un certo punto diventa praticamente uno stillicidio. Più di trentamila i soldati che disertarono durante la campagna greca e in generale il costo delle vite fu altissimo quanto inutile, all’alba di quella che poi sarebbe stata un’altra disfatta per l’esericito italiano, ossia la campagna russa.
La sensazione di impotenza insieme all’orrore per la guerra e per la stupidità umana, che durante le guerre abbonda sovrana, causando facili errori (come gli aerei italiani che bombardano i propri accampamenti o lo sperpero inutile di vite e forze), procurando vantaggi soltanto a pochi eletti, durante lo spettacolo si fa preponderante. Sale l’angoscia per l’immobilità degli alpini e con essa sale il freddo: un freddo che ti penetra nelle ossa, andandosi a incuneare per sempre nel cuore, nella testa, nei ricordi immutabili di chi quell’esperienza terribile lìha vissuta davvero. A noi spettatori e ascoltatori restano i brividi, fortissimi, nell’ascoltare queste narrazioni che hanno dell’incredibile, ma purtroppo, vere; brividi che sono sopportabili soltanto grazie al canto degli Alpini, che risuona caldo, commosso e commovente, un vero balsamo per un animo che altrimenti diventerebbe più duro del ghiaccio delle vette delle più alte montagne.
Una curiosità: pare sia stato lo scrittore a chiedere ai due drammaturghi a trarre uno spettacolo dal suo romanzo, edito Mursia, e che i due abbiano accettato, dopo un’iniziale perplessità. Una volontà di testimonianza che non si può che applaudire.