Quando la compagine delle soldatesche albanesi, capitanata da Giorgio e Basilio, figli di Demetrio Reres, venuta in soccorso di Alfonso I d’Aragona per aiutarlo ad assoggettare la Calabria, da questa provincia passò in Sicilia, si fermò in Bisiri, terra del Mazarese che teneva a presidio.
Intenti all’adempimento del servizio militare governativo, non potevano accettare l’dea di stabilirsi definitivamente lontano dall’amata patria la quale, sebbene a quei tempi sottoposta alla pressione militare del Musulmano, aveva in Skanderbeg la speranza di un futuro migliore.
Frontespizio del libro
Si racconta però che nel 1450, da Bisiri quei militari si trasferirono nel feudo di Contessa, ed ivi fondarono il paese omonimo. Lo abbandonarono dopo qualche anno per recarsi in Albania a combattere sotto la bandiera della patria: ma tornarono a ripopolarlo appena che, morto il valoroso Castriota, si prospettava per quella terra un’epoca terribile e funesta. Si unirono ad essi una buona quantità di famiglie distinte per cariche e nobiltà, e da quelle ebbero origine le colonie siculo - albanesi. Inizialmente queste colonie furono sette: Contessa, Piana de’Greci, Palazzo Adriano, Mezzoiuso, Bronte, S. Angelo e S. Michele. Attualmente, però, solo le prime quattro vengono riconosciute come insediamenti di cultura albanese, avendo le ultime tre mutato linguaggio e costumi.
Contessa dunque riconduce la data della sua fondazione al 1450, e la ripopolazione intorno al 1480, ad opera dei valorosi militari venuti al seguito di Reres in Calabria fin dal 1448. A quell’epoca, il feudo apparteneva ad Alfonso di Cardona; le convenzioni con gli Albanesi furono stipulate il 14 dicembre 1517.
Piana de’Greci[1] fu fondata nel 1488, epoca in cui ottenne la sovrana approvazione delle convenzioni fatte il 13 Gennaio 1487 tra molte famiglie albanesi e il Cardinal Borgia, arcivescovo di Monreale, con le quali quest’ultimo concedeva a quelle famiglie il permesso di abitare e coltivare i due feudi di Merco e Aydingli, appartenenti a quell’arcivescovado. In un primo tempo, esse si erano stabilite alle falde dell’erto monte Pizzuta, sotto tabernacoli e padiglioni secondo l’uso militare. Dopo un qualche anno discesero alla pianura vicina, dal momento che l’aria rigida del monte era per loro nociva.
Panoramica di Piana degli Albanesi
Il primo riferimento documentato a Palazzo Adriano risale all’anno 1482, con le capitolazioni stese da Giorgio Mirspi, mediatore tra tredici famiglie albanesi e Giovanni Villaraut, signore del feudo, che aveva concesso ad esse di abitarlo e coltivarlo. Nel 1507 il feudo passò al Cardinal Galcotti, e costui, con nuove capitolazioni, confermò pienamente gli accordi sanciti nelle prime.
Iscrizione di Palazzo Adriano
Il nome Mezzoiuso è legato alla commenda dell’anno 1501. I suoi fondatori avevano vagato per più feudi prima di fermarsi in questo, già pertinente al Monastero Benedettino di S. Giovanni degli Eremiti. Monsignor Alfonso d’Aragona, commendatario di quel Monastero, aveva, fin dal 1490, concesso agli Albanesi di abitarlo; ma non concesse loro i privilegi e non stipulò le capitolazioni che nel 1501.
Ciò che rimane oggi del Monastero benedettino di S. Giovanni degli Eremiti
Queste colonie stabilite in Sicilia attiravano l’attenzione generale per l’ingegnosità degli abitanti e per i loro modi gentili, ed accrescevano di giorno in giorno la loro popolazione grazie all’afflusso dei residenti della zona di fede cattolica.
Essendo stati gli Albanesi i fondatori delle colonie, essi ritenevano di dover avere il primato sia morale e civile quanto ecclesiastico nelle colonie stesse. In fatti essi soli erano ammessi alle cariche pubbliche che erano considerate di loro diritto esclusivo. Questo privilegio però, col decorso degli anni, venne meno quasi ovunque; rimase in vigore in Piana sino al 1819, anno in cui le nuove leggi distrussero ogni disuguaglianza fra i cittadini. Gli Albanesi mantennero intatto il primato morale ecclesiastico dal momento che i Latini vengono considerati stranieri in quelle comunità, in cui predominano il linguaggio e i costumi epiroti, e le Chiese si rifanno al rito greco: salvo che a Mezzoiuso, dove vi sono due culti, l’uno greco e l’altro latino, grazie ad una transazione a cui convennero i due cleri di quel paese nel 1681. Non mi soffermerò sulle scissioni e sulle discordie continue che per moltissimo tempo turbarono i due cleri nelle colonie albanesi di Sicilia.
Durante i primi secoli del loro insediamento, senza una stabilità politica e senza un vescovo di rito ortodosso, i giovani greci[2] che intendevano dedicarsi al sacerdozio erano costretti a studiare nei seminari cattolici e, per essere ordinati sacerdoti, dovevano recarsi a Roma. Da ciò derivarono due gravi problemi: primo, essi non potevano approfondire mai le conoscenze liturgiche e la disciplina della loro Chiesa; secondo, i loro viaggi nella capitale del mondo ortodosso risultavano molto dispendiosi. Per cui, divenendo esiguo il numero dei sacerdoti e divenendo il clero ortodosso sempre più ignorante, c’era il palese pericolo della completa estinzione del rito, nonché del linguaggio e dei costumi patri.
Questo stato penoso perdurò fino a circa la metà del secolo scorso[3]. Viveva a quei tempi P. Giorgio Guzzetta, della Congregazione dei Padri Olivetani di Palermo e questi, mosso da quello zelo potente che contraddistingue i grandi uomini quando si pongono lo scopo di procurare un bene generale a una nazione, con i suoi modi risoluti e con cure infaticabili giunse ad ottenere da Carlo III, allora regnante sulle Due Sicilie, il permesso di fondare un collegio Greco in Palermo, ed inoltre una dotazione in denaro molto rilevante, detratta dalle mense dei vescovi cattolici, sotto la cui giurisdizione si trovavano le colonie.
Padre Giorgio Guzzetta (1682 – 1756), fondatore del collegio greco-albanese di Palermo
Fatto questo primo passo, si cercò di ottenerne un secondo, e cioè la designazione di un vescovo greco per le sacre ordinazioni. Pochi anni dopo aver ottenuto il primo risultato le colonie, unanimemente, si rivolsero al re per raggiungere anche il secondo obiettivo. Dovettero, però, subire le proteste dei vescovi latini, che ritenevano tale novità superflua e inammissibile perché avrebbe offeso in profondità i diritti antichi della loro giurisdizione. Per dirimere la vertenza sorta tra le opposte fazioni, il re Ferdinando IV ne affidò l’esame alla suprema Giunta di Sicilia, ed è famosa l’arringa dell’illustre Saverio Mattei che, in questa occasione, scrisse a difesa dei Greci. La causa fu risolta a loro favore sul finire dell’anno 1782. Ottenute in seguito le approvazioni di Roma e la destinazione della mensa per il mantenimento del nuovo Prelato, col decreto del 10 Gennaio 1784 fu nominato il primo vescovo italo - greco in Palermo: monsignor Giorgio Stasi, già rettore in quel Collegio. Il Decreto Regio fu approvato dalla Bolla di Pio VI del 6 febbraio dello stesso anno, e fu destinata come congrua l’Abbazia commendata di S. Maria di Eula nella diocesi di Messina.
Allo Stasi successero due altri vescovi, ed il quarto, che attualmente[4] governa, è Monsignor Giuseppe Crispi, uomo dottissimo nella cultura e nella lingua greca, nonché esperto nella conoscenza di altre lingue orientali e delle antichità patrie. È autore di molte opere, tra le quali spicca il suo Corso di Grammatica Greca, tanto considerata dai giornali più accreditati d'Italia e di Francia e da Le Sage, che lo colloca nel suo Atlante tra i libri che meritano di essere consultati in fatto di lingua greca.
Monsignor Giuseppe Crispi (1781-1859)
Le colonie siculo - albanesi non mancano certo di altri uomini illustri, ed è un vanto di quest’opera onorarne qui la memoria. Il P. Giorgio Guzzetta, già fondatore del Collegio Greco di Palermo, può meritare degnamente dalla sua nazione il titolo di padre della patria: infatti egli non rivolse ad altro le cure di una intera vita che al bene dei suoi connazionali. Oltre al Collegio, fondò in Piana una Congregazione dell'Oratorio di San Filippo Neri per i sacerdoti celibi di rito greco - bizantino, e un Collegio di fanciulle albanesi, ove le quali fossero educate nella pietà, nelle pratiche del rito e nelle industrie femminili, vestendo l'abito delle monache Basiliane. Si distinse per la erudizione e per la conoscenza delle lettere greche e latine, ed esistono di lui una Cronica della Macedonia fino ai tempi di Skanderbeg, un Etimologico, una erudita Apologia delle Monache del Salvatore in Palermo e molti diplomi greci interpretati.
Il P. Antonio Brancato, cooperatore principale di P. Giorgio nella edificazione del Collegio di Maria di rito greco nella Piana, fu anch’egli un uomo meritevole del ricordo dei posteri. È autore di varie poesie sacre albanesi. Paolo M. Parrino nacque a Palazzo Adriano e morì a Palermo nel 1765. Scrisse varie opere redatte in puro latino, e fra le altre una Dissertazione sul Rito Greco in Sicilia, e una Storia dei Sacramenti. Questi manoscritti si conservano a Palermo nella biblioteca del Collegio Greco.
Girolamo Matranca, chierico regolare del secolo XVII, è ricordato come degno di lode da vari scrittori ed è menzionato in vari dizionari biografici di uomini illustri. Fu cittadino della Piana e morì nel 1679.
Monsignor Catalano, monaco Basiliano e poi arcivescovo di Durazzo, nacque a Mezzoiuso. Nella biblioteca del Collegio Greco di Palermo si conserva un suo Dizionario Italiano-Albanese e Albanese-Italiano in forma manoscritta con allegato un saggio di grammatica e varie canzoni albanesi.
Nicolò Chetta, nativo di Contessa, fu rettore del Seminario Greco, e la comunità albanese lo ricorda come uno dei suoi più grandi benefattori. Lasciò vari scritti sulla lingua albanese, un vasto dizionario ed un Etimologico dello stesso idioma, nonché una Storia dell'Epiro e della Macedonia.
Il Conte Alessandro Manzoni della Piana visse agli inizi del secolo corrente[5].
Nicolò Chetta (1741 – 1803), rettore del seminario greco-albanese
La sua dottrina e la sua eloquenza, che esercitava nel Foro, lo resero talmente autorevole presso i Siciliani, che la sua figura influì moltissimo nell'andamento degli affari dell'isola in quell'epoca difficile e tempestosa, e nel Parlamento Siculo del 1812, fu una delle personalità più luminose.
Sono anche degni di nota Costantino M. Costantini per i suoi Commentari ai decreti ed atti ministeriali, per il poema didascalico il Colombaio, e per l'altro poema incompiuto sui Vespri Siciliani; P. Serafino Guzzetta, Carmelitano Scalzo e, per come si siano distinti per le missioni nella Chimera in Albania, Monsignor Skirò, Arcivescovo di Durazzo e Monsignor Basilio Matranca.
[1] In realtà, il paese è noto come Piana degli Albanesi. L’autore si riferisce erroneamente alla località con il nome di Piana de’ Greci perché il rito ortodosso, in voga in questa località, utilizza come unica lingua veicolare la lingua greca. A partire dagli anni sessanta del XX secolo, il paese è ufficialmente noto come Piana degli Albanesi (N.d.R.).
[2] Ogni volta che l’autore si riferisce alla popolazione del luogo parlando di Greci, in realtà il solo criterio utilizzato è quello del rito ortodosso. È chiaro, dunque, che i Greci sono in realtà gli Albanesi trasferitisi nel luogo (N.d.R.).
[3] Con “scorso” l’autore si riferisce al secolo XVIII (N.d.R.).
[4] Con “attualmente” l’autore si riferisce all’anno 1847, anno di pubblicazione del libro dal quale è tratto il brano (n.d.r).
[5] Trattasi del 1847 (N.d.R.).
Liberamente tratto da Su gli Albanesi ricerche e pensieri dell’autore Vincenzo Dorsa