Ricordo che qualche anno fa, mentre cercavo tra i libri di una bancarella allestita in occasione di una festività patronale, uno di quei personaggi ascrivibili alla mera conoscenza distratta mi apostrofò ironicamente a distanza in tal maniera:
«Arà Gaetano, cchi t’ha ccattari u libru ri Salvatore Giuliano?!?».
Il tizio era evidentemente bene informato del fatto veritiero: in effetti le locali bancarelle traboccano di libri sul noto bandito, la mafia e altre amenità simili. Avrei dovuto avvertirlo che in onor del vero anche nelle bancarella dei cd, tra Gianni Celeste e Orietta Berti, talvolta è possibile trovare i Modern Jazz Quartet o qualche introvabile album dei Phish. Avrei potuto fargli considerare che in quell’occasione stessa avevo appena acquistato una buona edizione della completa e monumentale opera di Michele Amari sulla storia dei musulmani di Sicilia. Ed è forse stata la mia remissività a farmi desistere dal contraddirlo. E poi perché disilludere qualcuno? Meglio lasciar contento il prossimo, nelle proprie convinzioni, persino quelle sbagliate. Un sorriso, un’alzata di spalle, un “pacienzia” nel mezzo e si va avanti. Eppure se il lettore-tipo non si vergognasse di frugare pubblicamente tra i tomi di una bancarella, se non ci fosse in lui quella stizza mondadoristica, forse potrebbe rinvenire appetitose pubblicazioni ormai fuori stampa, rare e introvabili.
In quell’occasione descritta ho avuto la fortuna di imbattermi in Albergo Empedocle di Edward Morgan Forster, edizione con traduzione a fronte curata da Nigel Foxell, pubblicata da Arnaldo Lombardi Editore, credo di Siracusa. Ovviamente fuori catalogo e non acquistabile online. Una vera tragedia per un buon lettore, mi creda il tizio di Giuliano il Bandito.
Albergo Empedocle non è forse (ma dico “forse”) ai livelli di Camera con Vista o Casa Howard, eppure non si riesce a comprendere il motivo della sua esclusione da ogni raccolta di racconti dell’autore. Forse l’autore stesso lo rinnegava come esperimento ancora immaturo, primo tentativo. Questo fu pubblicato la prima volta nel 1903 sulla rivista Temple Bar, sicuramente a seguito delle suggestioni nate nel contesto di quei formativi viaggi attraverso l’Europa, in compagnia della madre. Ed il racconto lo si può supporre meno che vagamente autobiografico. L’impressione che se ne ha è di un Forster quasi schopenhaueriano, più che platonico, nell’approccio alla realtà siciliana. Nel senso che ne avrebbe scritto comunque in tal modo, anche se non l’avesse mai visitata. Ed è proprio in ciò che sta forse il rinnegamento successivo del racconto, a suo giudizio forse troppo distante nelle valutazioni da come i fatti erano in realtà. Ingeneroso verso se stesso, non smetterò di ribadirlo, assodata l’intenzione persino eticamente provocatrice dello scritto in questione:
Un gruppo di altezzosi borghesi (alta e aristocratica borghesia), i Peaslake, sta rievocando il Grand Tour d’altri tempi in un viaggio che al momento del racconto tocca la terra di Sicilia, per la precisione Agrigento. Personaggi principali sono i giovani della compagnia, Mildred Peaslake ed il suo fidanzato Harold. Dei viaggiatori disattenti, distratti:
But, as Harold truly said, “People say we don’t see things properly, and are globe-trotters, and all that, but after all one travels to enjoy oneself, and no one can say that we aren’t having a ripping time.”
Uno sguardo leggero, tanto quanto quello del tizio che cercava di dissuadermi dall’acquisto in bancarella.
In effetti la più vispa della comitiva è proprio Mildred, è lei che cerca le “avventure”. Niente di veramente avventuroso, ci s’intenda, cose tipo fare una passeggiata e simili. Si trattava in sostanza di idealità avventurose (o avventurose idealità). In ogni caso “Every party, to be really harmonious, must have a physical and an intellectual centre. Harold provided one, Mildred the other.”
Tutto procede noiosamente british, sino a quando dall’elemento più sonnolento, cioè Harold, proviene il fattore di rottura, sottoforma di consiglio – guarda caso – per riuscire ad addormentarsi nelle notti insonni:
“You know it, don’t you? You pretend you’re someone else, and then you go asleep in no time.”
Immaginare di essere qualcun’altro è il miglior passatempo di uno scrittore, di un sognatore. Ma Harold, nel suo essere poco creativo non pensa di essere qualcun altro in particolare, magari un personaggio famoso. No, a lui basta astrarsi dall’identità non-dormiente per osservarsi dal di fuori e magari esclamare cose tipo:
“Che fesso quello, non riesce ad addormentarsi!”
Così il personaggio astratto, lascia l’insonne e si addormenta. Ovviamente nei fatti si addormenteranno entrambi, o almeno così si spera. Occorrerebbe un terzo per verificare. Siamo alle soglie della malattia, ed è per questo che Harold aveva in passato promesso ad un amico di non farlo più. In effetti lo andava facendo anche in occasioni diverse dalla fastidiosa veglia notturna, così lui stesso giustifica ai Peaslake l’auto-divieto. Bastava sentirsi giù di corda e…
I Peaslake rimangono sconvolti da simili dichiarazioni, una increspatura nella calma piatta della non-azione borghese. “Non è mai prudente scherzare con il cervello!”, si potrebbe finire per restare imprigionati in altre identità. Harold infatti da lì a poco si sveglierà da un sogno e racconterà alla sua fidanzata di aver scoperto di esser stato un Greco, un abitante di Akragas nei tempi che furono. Non un personaggio famoso, ma uno qualunque, ovviamente. È interessante nell’introduzione ciò che dice Foxell in merito. Si deve tener presente il periodo in cui scrive Forster, siamo nel pieno rigoglio degli studi teosofici e dell’interesse di una certa borghesia per questi e per i concetti di Madame Blavatsky. Foxell rammenta un’opera di Max Beerbohm (Savonarola Brown, 1917), una satira sulle deduzioni tratte in sede spiritistica dalle vite precedenti risultanti di quanti hanno interesse nell’indagarle. Spesso le esistenze anteriori sono sempre illustri: “Enter Lucrezia Borgia, St. Francis of Assisi, and Leonardo da Vinci. Wher, one wonders, ha all the ordinary people gone?”.
Unn’è a genti normale?
Ad ogni modo, Harold racconta il suo sogno a Mildred, la quale ad un certo punto – presa dal gioco – dichiara anch’essa di essere stata abitante di Akragas. Ma Mildred non ha capito che non di gioco si tratta e il suo fidanzato non può che deluderla apertamente:
“No Mildred darling, you have not lived at Acragas.”
Chi poteva saperlo meglio di chi aveva veramente vissuto quelle strade, quei templi di un tempo lontano:
“And far below at the bottom of the yellow waste was the moving living sea, which embraced Sicily when she was green and delicate and young and embraces her now, when she is brown and withered and dying.”
Ho l’impressione che Forster abbia capito molto più della Sicilia di tanti che ogni giorno la calcano incuranti.
Tornando al racconto – mi perdonerà il lettore, ma mi sento in obbligo si velarne persino il finale – mano a mano che passano i giorni Harold dimentica via via tutto ciò che fa (faceva) parte del suo quotidiano vivere. Cose come allacciarsi le fatue scarpe o annodarsi l’inutile cappio della cravatta. Harold quasi si compiace di sentirsi imprigionato in questa primitiva identità che aveva dimenticato.
Elio canta:
Io sono pagano, e adoro gli dei pagani.
Ma vivo nel presente.
E sogno di tornare nell’antichità
per rivalutare la paganità.
Forse è questo il desiderio perduto di Forster e di quella generazione intrappolata nelle ragnatele stantie del vivere borghese. Le trame soffocanti del perbenismo stanno stritolando l’umanità ed è a ciò che bisogna trovare una via d’uscita.
Mildred, dopo il primo risveglio domanda ad Harold delle sensazioni provate:
“What do you mean then, Harold, when you say you were greater?”
Harold risponde:
“I mean I was Better, I saw better, heard better, thought better.”
Opinioni che sono meglio spiegate nella conclusione affidata ad un amico di Harold:
“Poiché il maggiore ha rimpiazzato il minore (un’identità sull’altra), e Harold sta vivendo la vita che sapeva bene essere più grande di quella che viveva con noi.” … “Harold è tutt’altro che infelice. Le sue meditazioni gli sono soavi, ed egli guarda dalla finestra, ora dopo ora, e scorge nel cielo e nel mare cose che noi abbiamo dimenticato. Ma della presenza dei suoi simili sembra totalmente inconsapevole. Non ci rivolge mai la parola, né ci ascolta quando parliamo. Non sa che esistiamo.”
“For the greater has replaced the less, and he is living the life he knew to be greater than the life lived with us.”… “Most certainly he is not unhappy. Hi own thoughts are sweet to him, and he looks out of the window hour after hour and sees things in the sky and sea that we have forgotten. But of his fellow men he seems utterly unconsciuous. He does not know that we exist.”
Non c’è più tempo per altri commenti, occorre cercare l’identità più adatta per vivere il presente. Non una nuova – ché tanto il futuro è insondabile – ma una antica, o perlomeno vecchia! Forse…
Gaetano Celestre