“Quel giorno, mentre se ne andava passo passo lungo i marciapiedi affollati, lo colpì, guardando in terra alle centinaia di piedi scalpiccianti nella mota, la vanità del suo movimento: “Tutta questa gente” pensò, “sa dove va e cosa vuole, ha uno scopo, e per questo s’affretta, si tormenta, è triste, allegra, vive, io… io invece nulla… nessuno scopo… se non cammino sto seduto: fa lo stesso.” Non staccava gli occhi da terra: c’era veramente in tutti quei piedi che calpestavano il fango davanti a lui una sicurezza, una fiducia che egli non aveva; guardava, e il disgusto che provava di se stesso aumentava; ecco, egli era dovunque così, sfaccendato, indifferente; questa strada piovosa era la sua vita stessa, percorsa senza fede e senza entusiasmo, con gli occhi affascinati degli splendori fallaci delle pubblicità luminose. “Fino a quando?” Alzò gli occhi verso il cielo; le stupide girandole erano là, in quella nera oscurità superiore; una raccomandava una pasta dentifricia, un’altra una vernice per le scarpe. Riabbassò la testa; i piedi non cessavano il loro movimento, il fango schizzava da sotto i tacchi, la folla camminava. “E io dove vado?” si domandò ancora; si passò un dito nel colletto: “cosa sono? perché non correre, non affrettarmi come tutta questa gente? perché non essere un uomo istintivo, sincero? perché non aver fede?” L’angoscia l’opprimeva: avrebbe voluto fermare uno di quei passanti, prenderlo per il bavero, domandargli dove andasse, perché corresse a quel modo; avrebbe voluto avere uno scopo qualsiasi, anche ingannevole, e non scalpicciare così, di strada, fra la gente che ne aveva uno. “Dove vado?”; un tempo, a quel che pareva, gli uomini conoscevano il loro cammino dai primi fino agli ultimi passi; ora no; la testa nel sacco; oscurità; cecità; ma bisognava pure andare in qualche luogo; dove? Michele pensò di andare a casa sua.”





