Albino Crovetto, IMPOSIZIONI, poesie 2007-2010, il canneto editore
con una nota di Milo De Angelis
Zagreb – Pinacoteca
Dal basso sembra un’onda.
Fondo azzurro e tagli.
Filtrano corpi,
volumi
appoggiati al niente.
Uno giunge le mani
e lo depongono nel nero:
è un fiume ancora senza pace,
svuota le braccia
e rimane bianco,
con gli occhi invecchiati
e un segnale di resa
ti guarda,
vuole una somiglianza,
dietro i vetri
finisce in una linea,
diventa opaco.
p. 13
Quando viaggiamo, in fondo cerchiamo l’immagine di un luogo che abbiamo già conosciuto e che abbiamo dimenticato. O mai ritrovato. Così, per esempio, questa figura apparsa a Zagabria, imbrigliata tra le linee d’ombra dietro i vetri di una finestra, è la stessa, forse nascosta, che osserva da dietro le sbarre, in alto, un vicolo della vecchia Genova – come si vede nell’immagine di copertina: una fotografia dello stesso Crovetto – .
Uno sguardo imprigionato, dunque, imbrigliato; ma anche un intero corpo sghembo, tagliato dall’angolatura radente dell’ombra dentro al nero.
Questo corpo è: nomi, braccia, fianchi, ritratto; visti dall’alto o dal basso, lungo la corsia di un marciapiede.
Ecco delineato il taglio cromatico della prima sezione del libro, il taccuino di un viaggio in Croazia, di cui decido di parlare come un libro a sé, perchè capace, con la sua chiarezza, di spiegare e illuminare l’intera raccolta.
Vediamo geografie nient’affatto mediterranee, ma sospese, piuttosto, nel rischio della repentina scomparsa di pezzi interi di paesaggi, di figure intraviste negli incroci di angoli e ferrovie, fino alla scomparsa nel sangue, nel nero, di un intero corpo di donna, come inghiottita da presagi, da avvertimenti.
Ecco, allora, addentrarsi il viaggio nei detriti dell’ombra, nei macchinari arrugginiti dei resti, nelle periferie abbandonate fatte di cose non finite, di rotaie e asfalto, sbarre e fiumi, palazzi dentro palazzi, sfondi. Intere città lasciate alla deriva, lungo le cui vie questo viaggiatore inquieto sembra cercare qualcosa, seguire indizi, verso una impossibile meta:
Questa casa non è stata distrutta,
coincide con la foto e la montagna,
i vestiti quasi si somigliano,
ma ora non c’è silenzio:
il fiume stride e ristagna,
il marciapiede grida.
p. 16
Che cosa cerca, dunque, il viaggiatore? In realtà non cerca. Il viaggio è come un perdersi tra le macerie del tempo, nei detriti della Storia. Albino Crovetto sottrae alla logica consequenziale il lavoro fatto, i gesti compiuti, descrivendo una successione di eventi minimi non correlati, lasciati alla deriva del loro stesso senso e mostrandone, piuttosto, la tragicità del non senso, la reiterazione rallentata fine a se stessa:
Segna strade
con detriti e chiodi,
vede un portone
risucchiare,
costruire figure.
p. 17
Il compito non consiste nell’assolvimento del lavoro, di un dovere, ma nel riempire lo spazio di segni, dei piccoli riti per sostare nella vita: sacrifici sull’altare di un vuoto assolutamente amorale.
Avviene questo, per esempio, nel bellissimo viaggio del pianista, di Roman Polansky: in mezzo alle macerie maestose della città distrutta, l’essere resiste, prova a sostenere, coi frammenti della sua arte, i frammenti di una memoria collettiva; senza ricordo; solo per resistenza.
È un volo intrecciato,
un nodo, lo sforzo
di muovere qualcosa:
fare passi dentro strutture.
p.18
Orienta i piedi verso un progetto
orizzontale dentro
un paese che procede
a sbalzi
e gli offre erba
a gettarsi da un cancello -
un’amarezza di scritte,
un abbandono.
p.18
C’è un fare disadorno, dunque, in questo taccuino di viaggio: imperativi senza enfasi, detti per resistenza, non per obbedienza. Questo stato dell’essere, cioè, non sembra essere la conseguenza di una alienazione subita, di una tirannia teleologica ma, piuttosto, della sua naturalezza a scomparire: inquilino di luce e ombra, mostrato mentre va e viene, trapassa le pareti, la soglia, gli avanzi che rimangono.
passa di corpo in corpo,
disargina la sua faccia,
preme di messaggi il niente,
entra in un fossato,
invecchia, si addensa
in un palmo di terra -
il suo.
p. 24
In questa lunga sequela di sottrazioni, di torsi illividiti dalla luce, di sbieco, di spalle, mostrati in corsa, inquadrati quasi sempre in ritardo, tre figure di donna si mostrano nel perimetro ristretto di un tavolino:
Ora ti dico che ci sono tre tazze
su quel tavolo, il tavolo di Jasmina.
E tre pacchetti di sigarette:
quelle di Jasmina, Daria
e Benoit.
Benoit è nell’ombra, Daria gira la schiena,
Jasmina è Jasmina.
Fumano e parlano.
Io non li sento.
La prima tazza s’infrange.
Jasmina guarda.
Daria copre cose spaccate.
p. 24.
È il riassunto finale di cosa possa significare guardare la realtà con occhi rivoltati, scrollandosi di dosso secoli di archeologia dello sguardo, secoli di speranze illusorie di una storia a misura di anima.
Anima, qui, è deturpata del suo sguardo, insegue al rovescio, vede torsi d’uomo fuggire, mani che tirano su detriti come per costruire monumenti a non si sa quale dio:
Non c’è niente
in questo remoto
rovesciarsi d’asfalto,
manciate di chilometri
riversate sulle mani
e una cartina: un vuoto
accellerato
come non voler dormire
per molte notti svuotando la strada
gettando opache combustioni.
p. 26
Sebastiano Aglieco