L’articolo di Alessandra La Rosa, depositato nell’Archivio Marini, ricostruisce il contributo del giurista Léon Duguit al dibattito che a cavallo tra XIX e XX secolo si sviluppò in Francia sul tema del rapporto tra società e stato. Il contesto storico è quello della terza repubblica, la questione di fondo il tentativo di legittimare il superamento del modello di statualità sancito dalla rivoluzione dell’89 e incentrato sull’asse duale stato-cittadino.
La Rosa mette in luce la tendenziale convergenza tra l’ideologia repubblicana - in particolare nella versione sostenuta da radicali e socialisti riformisti – e la corrente intellettuale riconducibile alla sociologia positivista, i cui influssi sul pensiero di Duguit sono evidenti. La prima puntava ad abbandonare la concezione dello stato liberale classico, in nome di un Etat collaboration votato a realizzare il principio del servizio pubblico attraverso l’estensione dei propri compiti: è a partire degli inizi del 900 che si intensificarono gli interventi relativi a istruzione, assistenza, previdenza, regolazione dei rapporti tra capitale e lavoro. La seconda fu fonte di categorie teoriche al servizio di una visione organica della società, alternativa tanto all’individualismo liberale quanto al pensiero marxista. Oltre a Durkheim, con la divisione del lavoro e l’idea funzionalista dell’interdipendenza sociale, La Rosa richiama il “pensiero solidarista” di figure come Bourgeois e Bouglé. La solidarité positivista, che permea anche le idee giuridiche di Duguit, individua nella dipendenza reciproca tra gli attori sociali un prius rispetto alla dimensione dell’autonomia individuale, anche se non è pacifico se i doveri impliciti nei vincoli relazionali corrispondano a imperativi morali da realizzare o piuttosto a trame funzionali che si sviluppano deterministicamente prescindendo dalle volontà dei singoli. Ad ogni modo, il solidarisme assurse a strumento ideologico delle terza repubblica, “voie moyenne” tra individualismo e collettivismo, ponte tra liberalismo e socialismo, architrave di un progetto politico volto ad armonizzare i conflitti, e non a caso inviso sia alla destra nazionalista sia alla sinistra più intransigente.
Il contributo specifico di Duguit si colloca nell’ambito della dottrina costituzionale e di diritto pubblico. Per demolire l’idea di stato moderno partorita dall’89, Duiguit aggredisce due pilastri: il contrattualismo di origine giusnaturalista e il concetto di sovranità. Entrambi, facce della stessa medaglia, rimanderebbero all’astrattezza metafisica della cultura illuministica, che assegna all’individuo presunte prerogative giuridiche sotto forma di diritti soggettivi e investe lo stato della titolarità del potere sovrano in modo esclusivo. Il grimaldello per rompere la polarità individuo-stato è il concetto di diritto oggettivo, che sposta il baricentro teorico nella società, trama originaria di rapporti e funzioni, al di fuori della quale gli individui non sarebbero nulla. Nell’accezione proposta da Duguit, il diritto oggettivo altro non è se non l’insieme di regole immanenti al corpo sociale, e corrisponde ai legami che in esso si determinano. Il modo in cui viene inteso il diritto oggettivo ha una duplice conseguenza. Per quanto riguarda i diritti individuali, attribuzione, esercizio e limiti non possono essere identificati a priori, ma devono soggiacere al criterio della solidarietà sociale. È significativo che Duguit parli di “libertà funzione”, per sottolinearne la dipendenza dagli obblighi di integrazione sociale, che dovrebbero orientare gli stessi contenuti delle leggi positive. Stesso discorso vale per il diritto di proprietà, che andrebbe subordinato al compimento di una determinata funzione sociale e rispondere al principio di solidarietà. Dal lato della sovranità statale, l’impostazione di Duguit implica che lo Stato, come scrive La Rosa, “nell’agire per la società può operare solo tenendo conto del presupposto del diritto sociale” (p. 23). Il pensiero di Duguit approda a lidi corporativi – di questo tema La Rosa si è occupata altrove – avanzando la proposta di trasformazione del Senato in Camera delle rappresentanze professionali. Si tratta dell’esito conseguente del suo “pluralismo giuridico”, che mira ad estendere sul piano istituzionale il peso di quei corpi intermedi – associazioni, sindacati – i quali proprio tra otto e novecento divennero nuovi protagonisti della vita sociale ed economica. Un esito che rinvia al più ampio dibattito, non solo francese, collegato al tentativo - i cui frutti saranno controversi – di individuare una possibile “terza via” tra capitalismo e comunismo.