Alessandra Palombo - Mestieri

Da Ellisse

Alessandra Palombo - Mestieri - Ladolfi Editore 2014
Ogni volta che leggo qualcosa di Alessandra (Sandra) Palombo mi torna alla mente uno dei fringuelli di Darwin, quegli uccelli sulle cui differenze morfologiche si dice che lo studioso abbia fondato le sue teorie evolutive. In effetti la poesia di Sandra  è una forma di speciazione, fondata in parte su quella che io ho sempre definito la sua insularità (esattamente come i fringuelli darwiniani), ovvero su una forma di isolamento che in questi tempi moderni, così ricchi di mezzi di comunicazione, non può che essere psicologico o esistenziale; e in parte fondata su un particolare attaccamento ad una tradizione che non è solo poetica, ma anche antropologica, includendo in questo aggettivo anche l'uso della lingua (in effetti le sue escursioni o allontanamenti maggiori dalle forme per così dire correnti sono avvenuti con haiku o Tautogrammi d'amore e d'amarore, uno dei suoi libri, del 2005). E  in questo senso di insularità, che è appartenenza a un luogo, senso dei confini e bisogno di starsene appartati, c'entra certamente l'attaccamento alla sua meravigliosa Elba. Chi ha frequentato l'isola  d'Elba, magari in tempi non recentissimi (poiché todo cambia, canta Mercedes Sosa) e possibilmente non nel caotico agosto ma nel pungente inverno isolano, capisce di cosa stiamo parlando. E si ritrova di certo nei brevi testi, sintetici e icastici, di Sandra, nelle figure caratteristiche che era possibile trovare nei mercati o nei vicoli di Portoferraio o Rio Marina, nei mestieri cancellati da una mutazione antropologica a cui l'isolamento non poteva più fare da barriera. Naturalmente questo non è in libro di bozzetti coloristici, o di curiosità sociologiche. E', prima di tutto, un libro di ricordi di prima mano, vissuti direttamente, e se il ricordo è un'ancora di salvezza, lo è a maggior ragione per Sandra che, va detto, ha anche una vocazione di storica, soprattutto intorno alla figura del Napoleone elbano. Ma ricordi dinamici, legati a un tempo che è scorso e continua a scorrere nei versi, per mezzo dell'onnipresente  imperfetto, che è il tempo verbale della narrazione, del prolungamento nel tempo della vita raccontata. E poiché il tempo non lascia superstiti, siano essi individui o simboli di una stagione civile, mi piace pensare a questo libro come ad una piccola Spoon River nostrana, in cui gli scomparsi, qui muti e accompagnati ciascuno dagli oggetti simbolo del mestiere,  trovano la voce di chi ha accolto l'incarico di raccontarli.
Parrebbe ovvio allora definire questa poesia come "conservativa" (che, attenzione, è diversa da "conservatrice"), non solo per gli argomenti che tratta, ma anche per l'andamento che la contraddistingue, pacato e quasi incurante di trovare effetti o rime, semplice ma non dimesso, tanto da non ricercare nemmeno una chiusa ad effetto, epigrammatica, come se i testi provenissero direttamente da un bloc notes, senza eccessive mediazioni o patemi d'animo. In effetti è una poesia che trova il suo essere non nella forma ma nella sostanza delle parole concrete che usa, nella loro lineare consequenzialità, forse in quella che potrebbe sembrare ingenuità (ma qui "ingenuo" va inteso nel suo etimo di ingenito, connaturato), e che certo corrisponde a un genius loci (e magari può sembrare strapaesana) a cui Sandra vuole rimanere fedele. E allora ti rendi conto che l'insularità non è solo isolamento ma anche protezione, localizzazione, ancoraggio in qualche insenatura sicura. (g.c.)
Il postino
Col cappello di sbieco e la fronte
al vento, il borsone carico di posta
che saltava sul pancione,
con la pioggia, con il sole o controvento,
saliva lento, lento, Cecco.
Portava, nella parte alta del paese,
cartoline e notizie, belle e brutte,
dentro a buste con su scritto, spesso,
solo il nome e il paese, ed era raro
che tornassero al mittente
per "indirizzo insufficiente".
Il calzolaio
Gli occhialini sulla testa calva,
lo sguardo basso a rifinire suole o tacchi,
non so se andò in pensione o s'ammalò;
manifesti mortuari non ne vidi,
certo è che il negozio restò chiuso
e la lampadina a penzolare dal soffitto
sotto al quale aveva lavorato chino:
ginocchia e piedi uniti a fare appoggio
a una scarpa rovesciata.
La verduraia
Il gomito appoggiato sullo stipite,
come un'amazzone, guerriera ardita,
la verduraia, impettita e fiera, vigilava
le cassette degli ortaggi fuor dalla bottega,
così mostrava, in bella vista, oltre la frutta,
gran parte del suo seno prorompente,
che nel grembiule non voleva star nascosto.
Il vetturino
Berretta con visiera, briglie e frusta nelle mani,
vestito un po' dismesso, ma sempre con la giacca,
il vetturino guidava la carrozza, dalle tende
in finto pizzo, che volavano, a passo di cavallo,
facendo intravedere bocche e occhi di donne
animate in chissà quale chiacchiericcio.
La maschera
Non era una modella della carta patinata,
eppure era una Star, la maschera dell'Astra,
la donna con le puppe che tiravano la veste
mentre con la torcia illuminava i posti liberi.
Era, invero, una pioniera degli attuali buttafuori
che zittiva, con la luce e con la ghigna,
gli schiamazzi maschi che disturbavano le scene
del film domenicale, unico svago dell'inverno.
La ghiacciaia
Ghiaccio tra i pesci del mercato,
ghiaccio tra le fette di cocomero,
ghiaccio sotto a un tunnel, in un locale,
pieno di lastre lunghe e gocciolanti,
dove il padrone riceveva, a torso nudo,
gli amici di suo figlio, in un luogo
che appariva magico a chi era nato
con il frigorifero in cucina.
altre cose di Sandra Palombo v. QUI

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