Alessandro Gaudio La poesia visiva in Italia, 7 · La Scrittura Verbale
Questo factotumbook 34 è l'edizione, febbraio 1985, della copia identica del catalogo
della mostra di Franco Verdi presso J.& J. Donguy
(da : V.S.Gaudio, Les Implications Etroites du Fantasme, catalogo mostra di Franco Verdi da J.& J.Donguy, Paris 1985)
7.
Questa panoramica sui motivi che caratterizzarono le origini
della
Poesia Visiva in Italia può concludersi, così come era iniziata,
da
un testo di verifica semiologica (ma non solo) dell’attentissima
Rossana
Apicella. In un testo del 1979, pubblicato su un’altra rivista
molto
sensibile ai lavori di cui ci si è occupati qui, la studiosa tira
le
somme del movimento al termine di un decennio importantissimo
per
le sorti delle Neoavanguardie: la Poesia Visiva, legata al
divenire
dei tempi, appare, già nel ’79, frutto di una rivoluzione
(quella
dadaista, esplosa col Maggio Francese) fittizia e inconcludente.
Dal
1977 in poi, infatti, sull’utopismo che ha caratterizzato
quella
stagione prevarrebbe la realtà (che, a dire il vero, si era posta
sin
dai primi anni Settanta come riferimento concettuale obbligato
degli
esperimenti più consapevoli). In questa nuova fase, fattori
quali
la morsa economica, il futuro incerto e la precarietà dei mezzi
di
sussistenza e di benessere avrebbero indotto l’universalità della
rivoluzione
a frantumarsi – sostiene la Apicella – «in una casistica
di
sopravvivenza personale»29
Con
tutto ciò, sarebbe rimasto acceso un barlume di quell’impeto
di
urto e di partecipazione: la Poesia Visiva, uscita dalla necessità
dell’engagement
politico, ha potuto operare la rivoluzione più vera e
duratura,
che la Apicella decreta debba coincidere con quella del
linguaggio
poetico. Nel sostenere ciò, la semiologa ribadisce, comunque,
la
necessità di non restare estranei al proprio tempo e
contrappone
a una deprecabile parvenza di nuova poetica (quella,
ad
esempio,
propria del discorso di Pasolini sul recupero degli stilemi
dialettali,
dei proverbi, del motto), che resta nell’ambito della confessione
privata,
una auspicabile realtà di nuova poetica,
che manterrebbe
una
dimensione pubblica.
Il
fattore che ha condotto alla fine della Poesia Visiva è legato
alla
sua progressiva chiusura in
un gruppo di potere che ha cercato
di
spegnere ogni voce autonoma, ricadendo – secondo l’Apicella –
negli
errori del metodo dei Novissimi30:
la Poesia Visiva, superata la
sua
fase di lotta di gruppo (che ha avuto nel futurgappismo
il suo
stadio
più aggressivo), deve dunque rifiutare qualsiasi implicazione
politica
e realizzarsi nella Poesia per la Poesia, con lungimiranza
riconosciuto
come ambito di riferimento per la nuova Scrittura Verbale.
Ma
questa nuova rivoluzione si pone come superamento, che
mantenga
in ogni caso rapporti con la temperie precedente, o piuttosto
come
suo deciso rifiuto?
La
Apicella sembra propendere per questa seconda ipotesi, anche
perché
l’a-semanticità che caratterizza la Scrittura Verbale si
contrappone
alla necessità di immediatezza e di chiarezza del tipo
di
messaggio caro ai poeti visivi (un po’ strumento illuministicopopulistico,
un
po’ propaganda politica). Si chiude la fase utopistica
e,
con essa, il mito della praxiglossia:
«i poeti – dichiara la studiosa –
non
fanno altra storia che quella individuale, personale, autobiografica
»31.
Lo scacco della Poesia Visiva coinciderebbe, insomma, con il
fallimento
di tutta la Neoavanguardia, al quale sembra essere connessa
l’origine
di una lunga fase di crisi dalla quale, ancora oggi, si
sta
cercando di uscire: «la Scrittura Visuale nasce da questa crisi di
un
mondo e di una ricerca, dalla disgregazione di una storia poetica
implicata
da una storia civile»32
Rossana
Apicella ha colto con intelligenza la fase di mutamento
che
si stava originando in quegli anni nella cultura occidentale;
tuttavia,
avrebbe potuto essere maggiormente accorta nel decretare
la
fine della Poesia «a messaggio aperto» (liquidata frettolosamente
come
utopistica), liberando di fatto il campo a un tipo di scrittura,
«a
messaggio chiuso», Poesia Totale, sì, ma nuovamente monoglossica,
e
vicina agli echi del Futurismo, da un lato, e del Dadaismo
(definito,
in più occasioni, negazione della storia, proposta di quiescenza,
gioco
di carnevale, scherzo da seminario e commedia goliardica),
dall’altro,
e che, seppur ancora lontana dai manierismi di
un
decadentismo fatiscente, avrebbe perso la carica di azione, di
originalità
e di senso che la Apicella stessa era stata così brava a
individuare
nei lavori di Sarenco, di Verdi e di Pavanello (e di
pochi
altri). Tutti artisti che, seppur consapevoli che sarebbe stato
inutile
continuare sui binari di quel bios
politikos che contraddistingueva
i
momenti più eversivi della prima fase neoavanguardistica, stavano
sperimentando
autonomamente la possibilità di opporsi
al
conformismo sociale proprio della cultura italiana della fine
degli
anni Settanta e – che è la medesima cosa – all’inutilità di una
poesia
che indugi esclusivamente sulla parola o, ancora peggio, sul
segno
insignificante e lo stavano facendo mediante una forma privata,
individuale,
ma mai isolata o meramente contemplativa, di
prassi
intellettuale.
29
R. Apicella, Poesia
Totale come nuovo sviluppo della singlossia, «Zeta.
Rivista
internazionale
di poesia», I (1979), n. 1, p. 12.
30
Ivi, p. 16.
31
Ivi, p. 17.
32
Ivi, p. 18.
· [da: ALESSANDRO
GAUDIO, Mai bruciati dalla Cosa.
Parole, figure e oggetti dell’inattualità alle origini della Poesia Visiva in
Italia, "Critica
Letteraria" n.148, fasc. III 2010, Loffredo editore, Napoli ] ·
Paul De Vree, Beiroet
Franco Verdi, "Colonne" 1967
Franco Verdi, "Verbal-dama", 1968,
scultura-oggetto-gioco,
cm 240x240x1
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